giovedì 28 giugno 2012

l'editing di faccio testo_david lachapelle

Apre oggi al Lucca Center for Contemporary Art la mostra su David LaChapelle, curata dal direttore del centro Maurizio Vanni che è anche autore del saggio principale del catalogo, edito da Skira. L'editing del volume, in italiano e in inglese, è stato affidato a Faccio Testo. LaChapelle è il fotografo dell'allegra decadenza del corpo: nel senso che fotografa corpi di persone ben decise a ignorare gli effetti del tempo sulla carne mortale, che "non hanno un reale rapporto con sé stesse e con il proprio corpo, ma amano la propria immagine e, di conseguenza, si trasformano in microcosmi indipendenti e autoreferenziali che non sanno amare neppure gli altri", come scrive Vanni nel suo saggio.
David LaChapelle, Amanda as Warhol's Liz in Red, 2007. C-print, 127 x 127 cm
L'artista è una sorta di sopravvissuto: a diciannove anni assiste alla morte del suo compagno per Aids e comincia una vita di angoscia che si conclude agli inizi degli anni novanta, quando scopre di non essere sieropositivo e nella sua vita professionale esplode il colore: “Cominciai a usare il colore nello stesso momento in cui mi resi conto che sarei sopravvissuto. Mi sentivo come le mie foto. Penso che il mio scopo fosse di offrire una specie di via d’uscita alla pesantezza dell’epoca in cui vivevo” (Sara Apostoli, “Se dovessi fare una foto al papa lo ritrarrei mentre si lava i denti”, in “ConAltriMezzi”, 20 luglio 2011, articolo online qui).
 
In mostra sono esposte cinquantatré fotografie strepitose, compreso un Elton John con due belle uova al tegamino al posto degli occhiali.

David LaChapelle, Elton John: Egg on His Face, 1999. C-print, 152,4 x 127 cm

martedì 26 giugno 2012

fifty shades of grey, l'evoluzione

Ho deciso, dopo aver letto Fifty Shades of Grey, di proporne una versione espunta esclusivamente per usi inconfessabili, in abbinamento con l'utile coniglietto di Sex and the City: ciò mi renderà ricca, e risparmierà alle lettrici un ottanta per cento di fuffa.

soooo sexy

 Il linguaggio non deve indossare sempre giacca e cravatta. Il fine della fiction non è la correttezza grammaticale ma mettere il lettore a proprio agio e poi raccontargli una storia... fargli dimenticare, se è possibile, che è lui o lei che sta leggendo la storia. Il paragrafo di una sola frase è molto più vicino all'esposizione verbale che a quella scritta ed è un bene. Scrivere è seduzione. Parlare bene fa parte della seduzione. Se così non fosse, come mai tante coppie che cominciano la serata a cena finiscono a letto?

Stephen King, On Writing, Sperling & Kupfer, Milano 2001

il lavoro sui testi_l'editor come architetto (anche di interni)

 
“[…] E tuttavia molti rimangono all’oscuro in merito al vero lavoro di Shipton, o di qualunque altro editor. Specializzata in non-fiction, Shipton riconosce che il rapporto tra autori e editor è misterioso, e mai lo stesso da un libro all’altro. […] Shipton si è impegnata in tutte le forme di editing e le ha insegnate tutte. Paragona l’editing sostanziale all’architettura, nel senso che a volte è necessario abbattere i ‘muri’ di un libro per poi ricostruirli completamente. L’editing che si concentra più sullo stile, invece, somiglia in qualche modo al design d’interni. I muri possono essere robusti, ma ai mobili, o allo stile della prosa, servono cura e manutenzione. […]
In un mondo in cui i contenuti non sottoposti a editing sono decisamente in ascesa, sotto forma di blog o commenti nell’internet, Shipton afferma con passione l’importanza del lavoro che fa per vivere.
‘Dietro gli autori di successo c’è spesso un editor’, dice. ‘Se lanciamo nel web testi privi di qualunque revisione editoriale finiremo per avere molti più manoscritti scadenti o mediocri.’”

Cynthia MacDonald, Building great books. The architectural, editorial talents of Rosemary Shipton, in “Trinity”, vol. 49, I, inverno 2012, trimestrale pubblicato dal Trinity College, University of Toronto. La traduzione dell’estratto è di chi scrive; l’articolo intero si può leggere qui.
Ditemi se Rosemary Shipton non somiglia a una di quelle provinciali colpevoli in una puntata della Signora in giallo: adorabile
Rosemary Shipton ha lavorato come senior editor per la Canadian Encyclopedia a metà degli anni ottanta. È stata cofondatrice del publishing program della Ryerson University, Toronto, presso la quale insegna tuttora, ed è partner dello studio di consulenza editoriale Shipton, McDougall Maude Associates di Toronto.

lunedì 25 giugno 2012

cose (non) da libri: adesso è davvero estate

ovunque voi siate, procuratevi una bevanda eccitante (se siete astemi andrà bene anche un bicchiere d'acqua fredda, molto fredda, con qualche foglia di menta fresca messa a galleggiare sulla superficie: ricordate poi di praticare l'autoesaltazione). visualizzate una spiaggia, una sdraio, un cocktail, l'aria densa di salsedine sulla pelle. sentitevi liberi di non leggere, anche se la situazione sarebbe ideale, poiché volendo sopra quella sdraio si potrebbe aprire un ombrellone.
adesso riaprite gli occhi e localizzate il tasto play su you tube, perché è arrivata Chiki Bam Ba:


è sulla rivitalizzante canzone di Papa Winnie che balleremo fino a settembre.

ENJOY!

Chiki Bam Ba, testo e coreografia di Winston Carlisle Peters. Produzione video Autori Multimediali, Milano.

n.b.: non perdetevi, di Papa Winnie, la strepitosa versione di You Are My Sunshine, qui.

l'editing di faccio testo_piccoli incontri

Piccoli incontri con grandi architetti, uscito da qualche mese, raccoglie quindici anni di colloqui che enrico arosio, storico giornalista dell'"espresso", ha intrattenuto con architetti italiani e stranieri sul senso della loro disciplina. il volume è pubblicato da Skira editore; l'editing è stato affidato a Faccio Testo. 
è un bel libro non illustrato che parla dell'architettura come manifestazione della politica e parla molto della città, una passione per il costruito che chi scrive condivide molto con l'autore. le parole di arosio:

“[…] ho sempre pensato, e questo libro vuole ribadirlo, che l’architettura è, per natura sua, un grande fatto politico. Perché la città postindustriale è il luogo dei conflitti, della densificazione, degli incroci etnici, ma anche della formazione dei giovani, e dunque del futuro. E perché ripropone il senso originario della polis ateniese. È dai tempi di Pausania, in viaggio per le città greche nel II secolo dopo Cristo, che risuona l’ammonizione: dove la città versa in degrado è in degrado l’intera civiltà che l’aveva espressa. ‘Ammesso che si possa chiamare città’, chiosa Pausania di fronte alla decadenza, “un posto senza un municipio, senza un ginnasio, senza un teatro o una piazza del mercato, senza neanche una fonte pubblica in cui scorra l’acqua’. […]  Scriveva lo scrittore satirico viennese Karl Kraus nei suoi Detti e contraddetti: ‘Si può vivere più comodamente sull’isola di Robinson che a Berlino: ma soltanto finché Berlino non esiste’. Perché riporto questa frase illuminante? Per dire che senza città noi creature del Novecento, ‘carpet crawlers’ tra drammi, scempi e sogni del moderno, non potremmo essere. La città siamo noi. Alle trasformazioni delle città italiane, ed europee, ho dedicato una certa quantità di inchieste e reportage per il mio giornale. Da Milano a Rotterdam, da Parigi ad Amburgo, da Londra a Venezia. In questo libro non compare nulla, di tutto ciò, eppure questo mio impegno affiora, io credo, a ogni angolo. Perché ho voluto scrivere, oltre a un racconto a puntate intorno a personalità creative e fascinose, un omaggio a noi uomini e donne di città, alle nostre comuni passioni. Io sono un milanese: cultura urbana pura. Rumori, luci, etnie, tamburi nella notte e notti senza stelle. E il tema città mi ha toccato il cuore sin dai miei studi universitari, da quando con le settimane per studenti stranieri organizzate dal Daad, Deutscher akademischer Austauschdienst, scoprii Berlino, nella primavera 1977, con l’angosciante stazione Friedrichstrassse, il Muro, l’arroganza dei Vopos, il muto splendore neoclassico di Schinkel, le nottate di cool jazz nell’ombroso Quasimodo, e i liberi amori di quei tempi dolci. E c’era sempre un indomani, una mattinata di sole. E, tanto per dirne uno, Bruno Taut, con le sue Siedlungen, Onkel Tom’s Hutte e la Carl Legien, mi conquistò da subito. Come la Schaubühne nell’edificio di Erich Mendelsohn. E poi ad Amburgo la Chile-Haus. A Barcellona il padiglione di Mies. E Mackintosh a Glasgow. E Terragni a Como. E Loos contro Wagner a Vienna. E la Borsa di Berlage ad Amsterdam. E i meravigliosi grattacieli déco intorno al Loop di Chicago. E il cinematografico Chrysler Building a Manhattan. E la Triennale di Muzio nella mia Milano. E qui mi fermo, ma si sarà capito: chi scrive è un novecentista mai pentito. Mi fermo perché i vecchi amori, a elencarli, diventano, insieme, noiosi e irrazionali, e partendo dalla Repubblica di Weimar potremmo precipitare, di ricordo in ricordo, fino ai templi khmer di Angkor Wat, dove edifici millenari sopravvivono alla forza divorante della giungla. O magari alla Villa imperiale di Katsura nel lontanissimo Giappone, dove finiremmo storditi dal tambureggiare della pioggia sulle foglie.”

ed ecco, tratta dall’intervista a rem koolhaas, la descrizione della casa ideale da parte di un signore che aveva capito tutto dei rapporti di convivenza:

“Un giorno venne da noi un signore che voleva una nuova casa in Olanda. A due condizioni: odiava il disordine, per cui chiedeva molto spazio per immagazzinare, nascondere; e odiava il casino familiare, quindi ciascuno doveva poter stare separato dagli altri e solo se necessario incontrarli in una zona comune.”

domenica 24 giugno 2012

milano si riscopre buddista, ma incertamente arancione

 
premessa: mi è perfettamente indifferente che il dalai lama abbia o non abbia le chiavi della città di milano, sia o non sia cittadino milanese. noto tuttavia che la pezza che giuliano pisapia pubblica sul suo profilo facebook per giustificare il mancato adempimento della sua promessa:

“Sono molto lieto che, come già previsto, il Dalai Lama venga martedì a Palazzo Marino per un incontro con il Sindaco di Milano. Mi fa ancora più piacere che, oggi, mi abbia confermato la sua disponibilità a parlare nell’aula del Consiglio comunale, come mai accaduto in passato.
Sono certo che la forza di un messaggio di pace, di libertà e non violenza, trasmesso da una grande autorità spirituale, potrà superare ogni polemica.
Lavoriamo insieme per ridurre le distanze, per gettare ponti di amicizia, di cooperazione e libertà tra tutti i popoli.”

ha scatenato una ridda di commenti che inducono a chiedersi quanti siano i buddisti milanesi. in schiacciante maggioranza i commentatori danno addosso al malcapitato avvocato. in particolare, ho trovato molto calzante il commento di una signora anna manin:

di' qualcosa di sinistra, giuliano. questa dichiarazione puzza. ai tuoi ustascia che sostengono che la politica è arte di mediazione o opportunità ricordo che lo stalinismo non ha più molto senso ai tempi di internet, dove chi vuole manifestare dissenso ha molti strumenti per farlo. difese o giustificazioni motivate dal grande gioco degli interessi planetari suonano grotteschi. milano deve ritrovare orgoglio di grande città, non trasformarsi in uno strapaese che si bea di festicciole di quartiere.”

sono molto d’accordo su milano strapaese: dove si è mai visto l’assessore alla cultura di una grande città che scrive su facebook, come fa stefano boeri, dichiarazioni adolescenziali come:

“Partito alla grande Chorus City! Al Castello, all'Ottagono, alla Gam, alla Gellarie d'Italia, alla Chiesa di San Vito al Giambellino, al tempio Civico di San Sebastiano, al teatro Puccini, alla Chiesa Evangelica Valdese... ovunque voci piene forti che riempioni i cuori e gli spazi. Evviva!” [scusate i refusi, sono dello svagato copywriter di boeri]

?

perché non scrivete e basta?

 
al fattoquotidiano.it hanno sentito il bisogno di una grande innovazione: praticamente tutte le femmine che tengono un blog sul quotidiano online sono state raggruppate in un superblog che si chiama “donnedifatto”. con la parola “donne” scritta in rosa. il 23 giugno 2012 il post in evidenza è: Le donne italiane? “Sono botox addicted”.

impazza sul sito angela cotticelli, che pubblica post a ripetizione con i seguenti titoli: La moda va in bicicletta: numerata e decorata è adatta al “ciclo-feticista”; Cake design, da passione a professione; Concept coiffeur? No, parrucchieri.

di chi è stata questa idea cretina di andare a confinarsi nella riserva rosa?

electronic obituary

courtesy daringtodo.com
“Antonio Sirtori, il compagno di @NataliaAspesi, era persona squisita. Un abbraccio commosso a Natalia”
così scrive su twitter, che poi rimbalza su facebook, l’ex direttore dell’ex inserto culturale del “fatto quotidiano”. natalia si sarà sentita riconfortata? e vorrei anche sapere: ma poi l’ex direttore dell’ex inserto le ha pure telefonato o l’ha incontrata, per abbracciarla commossamente, natalia?

alla ricerca di un’immagine per illustrare questo post (ho poi optato per una strepitosa aspesi in tailleur di raso verde, che dio la conservi eternamente), mi sono fortunosamente imbattuta nel sito funeralresources.com, che fornice un servizio prezioso a chi volesse comprendere i vantaggi del pubblicare necrologi online, come possono leggere di seguito i miei seguaci anglofoni:

Key Advantages of an Online Obituary

1.  Every loved ones passing deserves a special message that can be easily accessed or distributed.
2.  An E-obituary is economical, easy to compose, in good taste, and is respectfully presented with the sole focus on your loved one.
3.  You no longer have to rely on any person or professional to submit this all-important and time-sensitive information, nor use a publication such as a newspaper that might not reach your intended target.

potete leggere il resto qui.

nel caso aveste un’impellente necessità di comporre un obituary elettronico, potete farlo del tutto gratuitamente qui.

mercoledì 13 giugno 2012

please


EXCUSE THE DUST

mercoledì 6 giugno 2012

voglio essere un lettore di massa

è per questo che ho appena comprato la versione per kindle di Fifty Shades of Grey. di cui ho letto che fa schifo come è scritto, che propone una immagine umiliante delle donne, che si addentra nell'oscuro campo dei dominatori e dominati sessuali. per quello che mi riguarda, l'ho comprato nella speranza di farmi pruriginosamente intrattenere per un paio d'ore. come quando scoprii una copia del tutto casuale di Justine a casa dei miei nonni e oh, quante incursioni nel mobile che lo conteneva.

martedì 5 giugno 2012

l'aborto come salvezza di giovani vite

courtesy theatlantic.com
"[…] Neanche una volta, tra i venti e i quarant'anni, desiderai avere un figlio, né provai qualcosa di più che un vago sentimento di benevolenza nei confronti dei figli altrui. Mentre le altre donne si commuovevano davanti ai neonati, io restavo in silenzio per nascondere ciò che provavo, e quanto ai bambini più grandi non li biasimavo certo per quello che erano, eppure sentivo che doveva essere una noia averli intorno, se non in piccole dosi. Ciò nonostante avevo probabilmente ragione nell'immaginare che avrei amato un figlio, qualora ne avessi avuto uno. Questo risultò evidente quando a quarantatré anni il mio corpo prese il sopravvento sulla mente e rimasi incinta. Era già successo in precedenza, ma allora avevo posto fine alla gravidanza senza alcuna esitazione né strascico di infelicità.
[…] Ma se mi chiedo 'Davvero non ti dispiace non avere figli o nipoti tuoi?', la risposta è: 'Sì, davvero'. Ed è proprio perché non posso e non voglio avere il fastidio di un intimo coinvolgimento con i piccoli che incontro oggi, che ho acquisito la libertà di comprendere la loro bellezza e le loro potenzialità.  
È una questione di egoismo: anche se non, spero, un egoismo dilagante; piuttosto un ostinato nucleo di egoismo da qualche parte dentro di me, che mi induce a essere molto cauta con ciò che richiede totale dedizione, come quella che una madre deve consacrare a un neonato o un bambino.  
[…] E ora mi viene in mente come la mia inadeguatezza verso i bambini molto piccoli […] mi portò a deludere la mia migliore amica […] quando una quarantina di anni fa mise su famiglia. Appena diede alla luce il terzo figlio si separò dal marito e dovette quindi crescere i bambini, svolgendo a tempo pieno un lavoro molto impegnativo per poterli mantenere. […] Davanti ai suoi problemi chiusi gli occhi, la frequentai sempre di meno, con la triste sensazione che fosse stata inghiottita nel fastidioso mondo dei bambini piccoli – o nel mondo dei fastidiosi bambini piccoli – e lei mi ha sempre detto che non si era mai sognata di chiedermi aiuto, perché sapeva bene quanto fossi fredda e distaccata nei confronti della sua prole".
Diana Athill, Da qualche parte verso la fine, Rizzoli, Milano 2010

Ho sottolineato le parole della quasi centenaria editor inglese Diana Athill perché le trovo particolarmente oneste e credo che diano voce al sentire intimo di molte donne. Credo nell'aborto come strumento di salvezza di molte giovani vite femminili e di molti neonati indesiderati o superficialmente considerati; ritengo che se si è stati imprudenti riguardo all'uso di mezzi contraccettivi non si debba esserlo altrettanto nel valutare il significato del dare la vita. Che non è un'operazione puramente biologica, come ci conferma la sovrappopolazione del pianeta, congestionato a causa di masse di infelici. Dare la vita e contribuire alla sua prosecuzione educando, amando, guidando è cosa terribile, così come terribile è la responsabilità che ne consegue. E terribile è anche spezzare il percorso di una giovane vita, sono terribili le madri giovani sottratte alla scoperta e allo studio, è desolante tutto quel potenziale frustrato. Perché i bambini non ammettono deroghe (certo, puoi anche trascurarli, picchiarli, abbandonarli, tenerli nella tua vita come una spina nel fianco che t'infuria: accade spesso), e se non si è rampolle di famiglie ricche (le famiglie ricche producono molte giovani madri: che tuttavia riescono anche a laurearsi in qualche università oltreoceano perché dispongono di molti aiuti pratici alla maternità) un bambino fatto da giovani intristisce e spezza l'esistenza. Ho abortito, con determinazione e consapevolezza, all'età di vent'anni: e l'unica paura che avevo era quella dell'operazione, del sangue, di eventuali complicazioni. Sapevo benissimo di non desiderare bambini e che l'opzione interruzione di gravidanza era l'unica che mi avrebbe consentito di non interrompere la mia vita. Non volevo, in così giovane età, essere inghiottita nel fastidioso mondo dei bambini piccoli.

domenica 3 giugno 2012

vite e famiglie di cui si fatica a comprendere l'utilità

mentre il papa discetta di famiglie e di sacralità della vita in tutte le sue forme, questo signore si butta e butta il bambino. famiglie del genere è meglio che non esistano, e la morte è l'unico evento che può salvare il resto dell'umanità da un pazzo (il padre) e da un sicuro disadattato (il figlio). l'umanità, talora, si autoregola.

sabato 2 giugno 2012

papapeople

milano è invasa da una moltitudine di fastidiose famigliole munite di magliette, cappellini e spillette, davvero orripilanti (ma chi diavolo ha studiato la grafica?). funestano i tram con i loro passeggini ingombranti e molto familiari, si danno voce l'un l'altro con toni di voce forzatamente giulivi, ma cosa sono venuti a fare?

"Il Signore ricompensi fin d'ora, con abbondanti favori celesti, l'Arcidiocesi ambrosiana per la generosa disponibilità e l'impegno organizzativo messo al servizio della Chiesa Universale e delle famiglie appartenenti a tante nazioni."

così si legge nella lettera del papa, quella preparatoria a queste insensate manifestazioni tribali.

e allora non avrebbe avuto senso cercare di recuperare il massimo del denaro speso, la "generosa disponibilità" di cui parla ratzie? non avrebbero fatto, gli organizzatori, un autentico figurone acquistando un maxischermo da piazzare sullla facciata del duomo, da cui il santo padre avrebbe potuto salutare le famiglie standosene comodamente a roma, e devolvendo il resto all'emilia e alle altre regioni terremotate? non si sarebbe potuto evitare quello scempio di miliardi di fatue bandierine di plastica con la scritta "viva il papa", piazzate in ogni dove e presenti in ogni mano? a cosa servono, quanto abbiamo speso, quanto abbiamo inquinato?

c'è qualcuno che può spiegare a una donna confusa

il senso di questo passaggio del discorso di accoglienza del sindaco di milano al santo padre? si colloca forse nel solco della memorabile allusione del "manifesto" al pastore tedesco?

 "La famiglia. Qual è il significato della parola famiglia? Famiglia significa amore, rispetto, solidarietà. E significa scelta, scelta di condividere un pezzo di strada. La famiglia è, in piccolo, la nostra società. Vengo da una famiglia numerosa – siamo sette fratelli, tantissimi zii, un’infinità di cugini – e anche noi, come Lei con suo fratello, guardavamo insieme in televisione il commissario Rex."

piccole, buone cose: il pane di castelvetrano

Comincia oggi la rubrica aperiodica sul pane che avevamo annunciato il 1° giugno: andiamo in Sicilia.

 
Una fetta di sole
Marina Caccialanza 

Scuro, dorato, dolce e saporito; sprigiona aroma di orzo e di mandorle. Deve la sua crosta spessa e croccante e la sua mollica morbida e alveolata al lievito naturale. È il pane di Castelvetrano, una delizia che da secoli completa la tavola dei siciliani che hanno la fortuna di assaporarlo.
Tra le meraviglie della ricchezza gastronomica italiana – oltre trecento tipi diversi di pane –, il pane di Castelvetrano è unico nel suo genere. Deve il suo sapore particolare ai due tipi di farina di grano duro impiegati per la sua produzione: la russulidda e la tumminìa, varietà autoctone cresciute sotto il sole della Sicilia, e all’uso del lievito naturale e del sale delle saline di Trapani. Cotto nel forno a legna alimentato con rami di olivo che ne esalta l’aroma di cereali, si presenta in grosse pagnotte da un chilo da affettare e conservare per diversi giorni.
Il pane di Castelvetrano*


 *immagine courtesy saperisapori.it

venerdì 1 giugno 2012

piccole, buone cose

Questa è una copia della prima edizione di Cathedral che da Bauman Rare Books vale 300 dollari. Io ce l'ho, ma non la vendo


No, cosedalibri non si trasforma in un food blog. Però ospiterà per qualche tempo una piccola rubrica dedicata al pane, curata da Marina Caccialanza, giornalista nel settore food per varie riviste di gastronomia e pasticceria e co-autrice del Dictionnaire Universel du Pain.
Il pane è uno dei cibi preferiti di chi scrive, arcinemico della sua forma fisica precaria. E tuttavia un farinaceo è una piccola buona cosa indispensabile, persino nei nostri momenti più critici. Come aveva capito benissimo il fornaio di Raymond Carver (è dal suo racconto che ho indegnamente tratto il titolo della rubrica), che alla fine della storia in questione diceva così:

“Annusate questo”, disse il fornaio spezzando un pane nero. “È un pane pesante, ma ricco.” Lo annusarono, poi lui chiese loro di assaggiarlo. Aveva un sapore di melassa e di frumento. Stettero lì ad ascoltarlo. Mangiarono quel che poterono. Inghiottirono il pane nero. Sembrava giorno lì sotto i tubi fluorescenti. Parlarono sino al primo mattino, con la luce alta e pallida che si proiettava dalle vetrine e non pensarono ad andarsene.
 Raymond Carver, Una piccola, buona cosa, in Cattedrale, traduzione di Francesco Franconeri, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1996.

Potete trovare il racconto intero (con alcuni refusi) sulla rivista online sagarana.it, qui (poi però comprate il libro). A presto con la rubrica.