mercoledì 3 febbraio 2010

cose turche


Sono stata un’adolescente molto stupida. I miei amici e io vivevamo in piazza Garibaldi, nell’avita città che mi diede i natali. Ci eravamo trasferiti là dopo essere stati cacciati, forse per motivi di ordine pubblico, da piazza della Vittoria, giusto al di là della galleria, perché (si era a metà degli anni settanta del secolo scorso) esisteva uno schieramento manicheo, da una parte quelli che venivano definiti fascisti, dall’altra i comunisti, i piccoli drogati, la gente in cerca di qualche cosa; e poiché le provocazioni di entrambe le fazioni erano all’ordine del giorno, spesso volavano mazzate.

In piazza facevamo la spola tra il muretto, che era il nostro divano, e il Gran Bar Colizzi, che ora non è più. Al bar trovavamo un cameriere segaligno, scuro di capelli e di pelle, afflitto da quell’atteggiamento tutto tarantino che sta tra il cinismo, il disincanto e la rassegnazione. Nulla ci diceva mai, quel mescitore dallo sguardo torvo. Il suo contrappunto, un cameriere dalla faccia larga, ci serviva d’inverno grandi bicchieri di latte caldo e vov, quell’ambrosia allo zabaione che solo uno stolto può non adorare; fu proprio questo cameriere a informarmi che per il raffreddore nulla è più efficace delle tre elle: latte, letto e lana. Volevamo vivere da un’altra parte, perciò, quando per strada qualcuno ci chiedeva un’indicazione, rispondevamo: “Non so, non sono di Istanbul”. Nella piazza suonavamo la chitarra, cantavamo e stavamo in mezzo a coetanei che si drogavano seriamente. La piazza raccoglieva un microcosmo assai miscellaneo ed era, per me, una favolosa passerella sulla quale sperimentare mises inedite: fece molto scalpore una lunga redingote nera che si allacciava con una teoria di piccolissimi bottoni dello stesso colore, portata su un paio di calzoni a sbuffo rosa shocking, che avevo convinto mia nonna, brava sarta innamorata della sobrietà, a confezionarmi nonostante tutto. Completavano l’abbigliamento un paio di stivali di cuoio grasso, bellissimi, provenienti dal Brasile: al tempo non esistevano ancora gli abatini dell’equo/eco/animal-solidale che avrebbero potuto contestare la mia scelta – il cuoio era proprio cuoio, altro che ecopelle, e mio padre aveva comprato quegli stivali da qualche artigiano locale a un prezzo ridicolo. All’epoca le ragazze indossavano volentieri, a mo’ di abiti, anche candide camicie da notte, che il canone prescriveva corredate di zoccoli di legno. Ma io, che mi ribellavo pure ai ribelli, agli zoccoli preferivo i miei stivalacci.

Era un tempo in cui individui barbuti, aggressivi o depressi, si riunivano esprimendo la volontà di incendiare edifici o di ammazzare capitalisti; individui egualmente barbuti o depressi fumavano una quantità incalcolabile di spinelli, da alcuni acculturati definiti anche joint, ciò che conferiva una patina di internazionalità a certi deprimenti convegni con obiettivi di sballo. Siccome queste persone mi rattristavano, preferivo accompagnarmi con alcuni maniaci che mi sostenevano nelle mie imprese di sottrazione di libri alle biblioteche: conservo ancora come un cimelio i Manifesti del dadaismo e Lampisterie di Tristan Tzara, rubato, o meglio mai riconsegnato, alla biblioteca di Aosta durante una trasferta. Fu così che scoprii come si fa una poesia dadaista, nonché l’esistenza di Monsieur Antipyrine. Sulla Storia del surrealismo di Maurice Nadeau, invece, crebbe tra me e un adepto di Roma una passione folle. Sentendoci come Achille e Patroclo, leggevamo il libro in contemporanea, ciascuno sulla propria copia, e poi ne parlavamo, citando Breton, Aragon, Picabia come fossero divi, come un adolescente ai giorni nostri cita qualche rapper. Ho maturato la mia passione per il wrestling partendo dal catch, così come è descritto da Roland Barthes nei suoi Miti d’oggi. Col mio amico Panarelli, poi, ero un’adoratrice del mango in tutte le sue forme, dal vivo frutto al tè in bustine; e insieme indossavamo un profumo maschile dal suggestivo titolo Macassar, prodotto da Rochas, che coniugava in sé l’assenzio, il geranio, il fiore di tabacco, il cedro e lo zenzero.

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