domenica 4 maggio 2008

night in abu dhabi


mio padre lavorava come operaio specializzato per un’azienda che costruiva laminatoi, piattaforme petrolifere e altre grandi strutture in paesi per me, al tempo, lontanissimi. questo lo portava dal venezuela alla liberia, dal perù all’iran all’algeria. i suoi compagni e lui lavoravano per tre, sei, nove mesi in uno di questi luoghi: vivevano in un accampamento all’interno del quale disponevano di un cuoco italiano e di qualche altra sparuta facility. disponevano anche di quello che si chiamava pocket money: somme in valuta locale che gli operai dovevano necessariamente spendere prima di tornare in patria. allora lui, arrivato all’aeroporto, comprava profumi francesi, liquori, sigarette: e al suo ritorno noi – mia madre, mia sorella, io – potevamo inopinatamente indossare le fragranze più care e à la page: miss dior, chanel numero 5 e numero 19, l’air du temps di nina ricci, ô de lancôme.
al ritorno da non so quale viaggio, una volta, portò, insieme con la consueta mercanzia, un’audiocassetta dall’evocativo titolo night in abu dhabi. occupata com’ero a cercare di strimpellare le canzoni di bob dylan, non credo di averla mai ascoltata: ma quel titolo mi è rimasto sempre in mente, con il suo carico di indistinte favolose sensazioni.
ho appena finito di leggere per lavoro un libro sull’avveniristica (ma è un avvenire già presente) architettura negli emirati arabi uniti: schiere di studi di architetti tra i più prestigiosi al mondo all'opera per progettare e realizzare una serie di utopie costruttive, oltre qualunque limite tecnologico, con l’enorme vantaggio di non dover badare a spese e di potersi così permettere il lusso di pensare anche all’ecologia e alla sostenibilità.
gli emirati sono lungimiranti: consapevoli dell’inevitabile venturo esaurimento delle risorse del loro sottosuolo, da qualche decennio pianificano una diversificazione dell’economia: creano servizi di investimento legati alla finanza e al turismo al fine di attirare capitali stranieri e, potendo pagare molto bene, coinvolgono i professionisti migliori e puntano a eguagliare gli standard qualitativi dei paesi più avanzati. tra le altre sfrontate meraviglie architettoniche di cui gli avveduti sceicchi si stanno circondando, è in progetto la saadiyat island, l’isola della felicità: su una superficie sabbiosa a 550 metri da abu dhabi sorgerà il polo culturale più grande del mondo: nel cultural district (ma in italia esiste un equivalente? a milano o a roma esiste, non so, il “quartiere della cultura”?) troveranno posto un louvre firmato da jean nouvel, un guggenheim di frank o. gehry, l’abu dhabi performing arts centre progettato da zaha hadid, il museo marittimo di tadao ando. ci saranno poi il museo dedicato alle tradizioni locali e una ventina di padiglioni per una biennale dell’arte, collegati da un canale navigabile, nonché un campus creativo con scuola di belle arti, per allevare le future generazioni di artisti. il louvre di abu dhabi è talmente louvre che ha ricevuto la benedizione dal vero louvre; eppure – sarà che in maggioranza sono ancora progetti e ho potuto vedere solo quelli, sarà che le simulazioni hanno qualcosa di inquietante, ma a ben guardare tanto il cultural district quanto il resto degli emirati restituiscono, più che l’idea di un’area in fermento evolutivo, un algido senso di second life. poi, come sempre accade, la natura farà il suo corso, forse qualche filo d’erba sfuggirà alle forbici degli implacabili giardinieri arabi. i progetti diventeranno costruito e l’aria salmastra del golfo produrrà qualche crepa, una breccia nei costosissimi materiali impiegati per le costruzioni. sarà il momento di trascorrere una notte ad abu dhabi.

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