venerdì 24 aprile 2009
Non è mai troppo presto (per spegnere)
Ascolto la conversazione che il conducente del tram numero due fa al telefono (mentre guida) e colgo un piccolo campione di arte della conversazione. Sento solo lui, ma comprendo che l’argomento è qualche incomprensione di coppia, forse relativa a una terza persona, che i due cercano di dirimere. La conversazione è pacata, vagamente artificiale, piena di “ti capisco”, “cerca anche tu di capire me”, “rispetto le tue decisioni” (non sto scherzando, diceva proprio così). La voce del conducente ha un’ombra di raspa in gola, una roca qualità popolare tenuta a bada dall’atteggiamento alla moda, una barbetta ben curata e un discreto gioiello all’orecchio. Il conducente si esprime in un italiano mediamente corretto. Mi frulla per la testa un richiamo a qualcosa di già sentito, poi d’improvviso tutto mi è chiaro: è il registro del reality show. La lingua delle conversazioni intrattenute su un divano mentre i giorni rotolano via in attesa del premio finale. È la versione del civile conversare targata “grande fratello”. La telecamera sempre sull’“on” riesce in parte a controllare gli istinti dei contendenti (fatta eccezione per quelli carnali, forse), a reprimere superficialmente la natura ferina di questa lotta per la sopravvivenza il cui scenario è di solito una casa che pare un insieme di stanze allestite in un negozio di mobili, dove in un ambiente ricco di comodità e di gadget da trentenni minus habentes si imbastiscono strategie per il raggiungimento dell’obiettivo. E dunque l’esposizione alla telecamera compie il miracolo che nessun itis era riuscito a fare: li seda, li interessa, li coinvolge. In superficie, però, ché poi, quando meno te lo aspetti, tra una mutanda mal sistemata e un succinto corpettino, parte lo schiaffone, la bestemmia, l’invettiva volgare. Certo, queste trasmissioni in qualche modo alfabetizzano, civilizzano, democratizzano. Però nel mediocre, nel raccogliticcio, a tempo. Non c’è più alberto manzi, alla tele.
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