domenica 6 novembre 2011

bookfast (writers for breakfast)_hemingway

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Tutta la tristezza della città giungeva all’improvviso con le prime fredde piogge invernali, mentre camminavi sparivano gli ultimi piani delle alte case bianche e non restavano che l’umida oscurità della strada e le porte chiuse delle bottegucce – gli erbivendoli, le cartolerie e le edicole, la levatrice (seconda categoria) – e l’albergo dove era morto Verlaine dove all’ultimo piano avevo una stanza dove lavoravo. […] Passavo davanti al Lycée Henri V e all’antica chiesa di St-Étienne-du-Mont e a Place du Panthéon spazzata dal vento, e per ripararmi tagliavo a destra e finalmente uscivo sul lato sottovento del Boulevard St-Michel e continuavo a camminare lungo il viale, scendendo oltre  Cluny e il Boulevard St-Germain, finché arrivavo a un buon caffè di mia conoscenza in Place St-Michel.
Era un caffè simpatico, caldo e pulito e accogliente, e io appendevo il mio vecchio impermeabile all’attaccapanni, per farlo asciugare, e posavo il cappello di feltro, logoro e stinto, sulla rastrelliera sopra il sedile e ordinavo un café au lait. Il cameriere lo portava e io toglievo dalla tasca della giacca un taccuino e una matita e mi mettevo a scrivere. Stavo scrivendo di quand’ero su nel Michigan, e poiché era una fredda giornata di vento sferzante, era lo stesso tipo di giornata anche nel racconto. Avevo già visto arrivare la fine dell’autunno con gli occhi dell’infanzia, dell’adolescenza e della giovinezza, e di queste cose avviene che uno si trovi a poterne scrivere meglio in un posto, piuttosto che in un altro. Era quel che si dice trapiantarsi, pensavo, e poteva essere necessario alle persone come ad altri generi di cose che crescono. Ma nel racconto i ragazzi bevevano e questo mi fece venir sete e ordinai un rum St. James. Aveva un sapore straordinario in quella fredda giornata e continuai a scrivere, sentendomi benissimo e sentendo il buon rum della Martinica che mi scaldava il corpo e lo spirito.
Entrò una ragazza e si sedette a un tavolo vicino alla vetrina. Era molto graziosa, con un viso fresco come una moneta appena uscita dalla zecca, se coniassero le monete in una carne liscia con la pelle rinfrescata dalla pioggia, e aveva i capelli neri come l’ala di un corvo che tagliavano la guancia con una netta diagonale. […] Il racconto si scriveva da sé e io facevo fatica a non restare indietro. Ordinai un altro rum St. James e guardavo la ragazza ogni volta che alzavo gli occhi, o quando facevo la punta alla matita con un temperamatite dal quale i trucioli cadevano arricciandosi nel piattino sotto il mio bicchiere.
Ti ho visto, bellezza, e ormai tu mi appartieni, chiunque tu stia aspettando e anche se non ti rivedrò mai più, pensavo. Tu mi appartieni e tutta Parigi mi appartiene e io appartengo a questo taccuino e a questa matita.

1 commento:

Emanuele Secco ha detto...

Sono senza parole... di una bellezza che rapisce l'animo e lo riversa su quel taccuino.

E.