domenica 24 aprile 2011

monsieur bovary

Sul “Vanity Fair” n. 16 del 27 aprile 2011 trovo un’intervista ad Alber Elbaz, direttore creativo di Lanvin. Un delizioso cinquantenne sovrappeso (il tipo di uomo che piace da morire a chi scrive, che ne condivide le tendenze ipocondriache, ma sfortunatamente lontano e già fidanzato) il quale, alla dichiarazione dell’intervistatrice: “So che non le piacciono le interviste, sarò rapida e indolore”, replica: “Sembra un dottore! Bene! Io detesto gli avvocati e adoro i dottori. Avrei voluto essere uno di loro. Un medico di provincia, come il marito di Madame Bovary. Uno che sa i pettegolezzi del paese e che comunica con le persone una alla volta e che si occupa del corpo, ovvero dell’essenza delle cose”. “È ipocondriaco?” “Della peggior specie. Vado dal medico quasi tutti i giorni. Quando entro al pronto soccorso, mi salutano con entusiasmo, come un caro amico”.

Chi è il marito di Madame Bovary? Un sempliciotto imbranato, medico più che mediocre dal passato di studente più che mediocre. Ecco un ritratto di Charles nei pensieri di sua moglie Emma Bovary, née Rouault: “La conversazione di Carlo era piatta come un marciapiede, e le idee degli uomini comuni vi sfilavano nel loro abito solito senza suscitare emozione, riso o fantasticherie. Diceva che quando stava a Rouen non aveva mai avuto la curiosità di andare al teatro a sentire gli attori di Parigi. Non sapeva nuotare, né tirar di scherma o alla pistola, e un giorno non aveva saputo spiegarle un termine di equitazione letto da lei in un romanzo.
Un uomo non doveva, invece, saper tutto, eccellere in molte attività diverse, sapervi iniziare al fuoco della passione, alle raffinatezze della vita, a tutti i misteri? Ma lui non insegnava niente, non sapeva niente, non desiderava niente. La credeva felice; ed ella sentiva per lui un astio per quella calma così placida, per quella pesantezza serena, per la felicità stessa ch’ella gli dava”.

E ancora:

“Lui stava bene, aveva buon aspetto e la sua reputazione era ormai ben solida. I contadini lo amavano perché non era superbo. Carezzava i bambini, non andava mai all’osteria, e ispirava fiducia per la sua moralità. Otteneva successi particolarmente nei catarri e nella malattie di petto. Difatti, per la paura di spedire i suoi clienti al Creatore, Carlo si limitava a ordinare pozioni calmanti, qualche emetico, un pediluvio o l’applicazione di sanguisughe. Non che gli facesse paura un intervento chirurgico; salassava la gente abbondantemente, come cavalli, e, per l’estrazione dei denti, aveva un polso di ferro.
Per tenersi al corrente, si era abbonato all’‘Alveare medico’, nuovo giornale di cui aveva ricevuto il programma. Ne leggeva un po’ dopo cena, ma il tepore della stanza e il lavorio della digestione lo facevano addormentare dopo cinque minuti; ed egli rimaneva là, col mento appoggiato alle due mani e i capelli sparsi, come una criniera, fino al piede della lampada. Emma lo guardava alzando le spalle. Perché non aveva per marito almeno uno di quegli uomini dagli ardori taciturni che passano la notte sui libri, e che, a sessant’anni, quando arriva l’età dei reumatismi, portano finalmente un distintivo, una croce, sulla marsina nera mal fatta? Avrebbe voluto che quel nome di Bovary, ch’era il suo, fosse illustre, avrebbe voluto vederlo in mostra nelle librerie, ripetuto nei giornali, conosciuto in tutta la Francia. Ma Carlo non aveva ambizione!”
Gustave Flaubert, La signora Bovary, traduzione di Giuseppe Achilli, Rizzoli, Milano 1978.

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