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Dovrei alzarmi dal divano e andare a cercare lavoro. Non basta telefonare, bisogna farsi vedere di persona, con la finta sicurezza di uno che ha grandi intuizioni traducibili in paginate, anche se dentro si trascina una zavorra di consolidate disillusioni.
Invece io no. Non vado da nessuna parte. Resto asserragliato in casa mia, in questi anni ho lavorato anche troppo.”
Finora, di Paolo Bianchi, chi scrive aveva letto una manciata di articoli sulle pagine culturali di “Libero”, luoghi in cui Bianchi si esercita in una sorta di ossimorico antintellettualismo – fustigando certi atteggiamenti degli scrittori e relativi all’ambito editoriale più in generale – e strizza l’occhio ai lettori più orientati al “parla come mangi”. Per capirci, prendiamo ad esempio l’incipit che segue: “Una volta, 25 anni fa, un famoso industriale tessile che per un certo tempo aveva voluto occuparsi di una Fondazione culturale disse, sconfortato: ‘Gli intellettuali sono come dei bambini’. È vero. Soprattutto quando litigano. Gli intellettuali (che non è sinonimo di ‘artisti’) fanno cadere le braccia per come si accaniscono su delle minutaglie. Proprio come bimbi di sei-otto anni, si tirano i capelli, si graffiano per la merendina, strillano. Sarà perché sono sensibili? Boh, anche chi lavora di braccia è sensibile, solo che magari non può permettersi di dimostrarlo” (Angela Azzaro – “Alfabeta2” la censura, sul web la insultano, in “Libero”, 31 marzo 2011, p. 33).
Poi un giorno, a partire da un filo trovato su un blog, sono arrivata al blog di Bianchi, dove mi sono imbattuta in un singolare gioco a premi: i primi dieci che avessero proclamato via mail (alla mail di Paolo Bianchi) che Paolo Bianchi è una brava persona avrebbero ricevuto via posta uno dei suoi libri a scelta. Dato che non vedevo alcun motivo per non affermare che Paolo Bianchi è una brava persona, ho seguito le indicazioni e dopo qualche giorno il libro è arrivato in una busta bianca. Era quello che avevo richiesto, Per sempre vostro (Salani, Milano 2009): la vicenda di Emilio Rivolta, un giornalista impiegato in un mensile femminile, “Donna Futura” (mi viene in mente un settimanale Mondadori, a leggere quel titolo), raccontata dai tempi dell’università al momento in cui, in un soprassalto di orgoglio, si licenzia e si rimette sul mercato come libero professionista, in una città che è senz’altro Milano, trovandosi coinvolto in un tentativo di intervista con un notabile della televisione dalle pratiche poco chiare. Con lui, nel racconto, un’affascinante quanto ambigua ex compagna di università ex comunista, Iride Maestri – una signora ombrosa, apparentemente impegnata a cambiare il sistema “dall’interno” (dall’interno della televisione), ma di fatto funzionalissima ai suoi ingranaggi; la moglie Aurora, eccellente figura di donna risolta e poco incline a posticci tormenti e mortificazioni, che un bel giorno lo lascia apparentemente senza motivo (ma alla fine se ne scoprirà uno molto nobile e molto affettuoso); Milano, la città del lavoro (“La città era grigia e lucida come la schiena di un cane bagnato. Noi ci stavamo sopra come le zecche. Cercavamo di tenerci al caldo e di succhiare il sangue. Strisciavamo verso la meta. La meta era il loculo. Ero una zecca in una pelliccia sporca o un criceto in gabbia?, pensavo guardando gli operai che si aggiravano con l’aria impotente di un’armata sconfitta intorno alle loro buche di fango, trincee”; “Ogni anno mi dico: Questo è l’ultimo inverno, qui. Ma il lavoro è qui. È sempre stato qui. Io sono intrappolato in questa grande città”).
Emilio, catapultatosi in una vicenda più grande di lui, crede in un primo momento possibile gestirla. E la gestisce, sì, nel senso che la capisce e comprende il ruolo della sua antica compagna di università in tutta la storia. Di fronte alla possibilità di uno scoop che lo riporterebbe giornalisticamente in auge, Rivolta devia e decide di guardare in una direzione del tutto inusitata, opposta ai luoghi del potere e lontana da Milano, una casa in montagna, seguendo i passi di Aurora.
Alla fine del percorso “schifo il sistema – mi licenzio – torno nel sistema e assurgo agli onoro della professione mediante il grande scoop” Emilio volta le spalle a tutto; di fatto questo significa risolvere l’attrazione mai sopita per Iride ed entrare nell’età adulta aderendo pienamente al rapporto coniugale.
A Paolo Bianchi piacciono le similitudini, che usa a man bassa: “La mia schiena aderisce al divano come un tallone al calzascarpe”; “… le mie labbra … avanzano come cuccioli ciechi in cerca del tepore della pelle e della carne …”; “Una nota dissonante, nervosa, come il vetro sbattuto di una porta che continua a vibrare”; “… mi sento la faccia come un soufflé riuscito male”; “La conversazione tra noi è come gomma fusa che si raffredda e indurisce”. Il suo Emilio Rivolta, pur costantemente in preda agli psicofarmaci cui ricorre per sedare ricorrenti attacchi di panico, coltiva uno spietato senso dell’onestà. Riflette sul suo genere (talvolta le sue prestazioni sessuali non sono ottimali) ed è capace di fermarsi sulla soglia di un tradimento fisico.
Uno dei motivi per i quali Per sempre vostro mi è piaciuto è il seguente: non ho trovato, nel corso della lettura, compiacimenti di scrittore avvitantesi su sé stesso (mi è capitato di recente di leggere qualche pagina di uno scrittorello inspiegabilmente sponsorizzato da un noto scrittore. Mi hanno molto irritata le frasi involute e l’oscurità, la sostanziale incomprensibilità – e di conseguenza la non necessità – di questo testo. E bisogna vedere quanto, sul social network par excellence, questo ragazzo è nevroticamente intollerante alle opinioni confliggenti con le sue). Torniamo, però, a Paolo Bianchi. Il quale ha scritto anche, tra gli altri, La repubblica delle marchette (Stampa Alternativa, Viterbo 2004), La cura dei sogni (Salano, Milano 2006), I maledetti (Vallecchi, Firenze 2010). Ho intenzione di leggere anche quelli, per farmi raccontare altre storie.
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