sabato 21 aprile 2012

albanacco_charlotte brontë

La copertina della prima edizione di Jane Eyre
Charlotte Brontë nasceva centonovantasei anni fa a Thornton, nello Yorkshire, figlia di un reverendo un po' eccentrico che, come narra la vita della sorella Emily premessa all'edizione Garzanti di Cime tempestose del 1965, "svegliava i suoi bambini sparando ogni mattina un colpo di pistola fuori dalla finestra".
 Propongo di seguito, per festeggiare il genetliaco della figlia dell'ecclesiastico sparatore, un brano da Jane Eyre (Smith, Elder and Co., London 1847), da cui si evince che i libri possono anche fare molto molto male.
 

John non voleva molto bene né alla madre né alle sorelle.
Io poi gli ero antipatica; mi maltrattava e mi puniva, non due o tre volte la settimana, non due o tre volte al giorno, ma sempre; ognuno dei miei nervi aveva paura di lui, ogni brano della mia carne e delle mie ossa fremeva allorché egli si accostava a me.
Vi erano momenti in cui divenivo selvaggia per il terrore che mi ispirava, perché non sapevo a chi ricorrere contro le sue minaccie e le sue punizioni. I servi non avrebbero voluto prendere le mie difese per non offendere il loro giovine padrone, e la signora Reed su quell’argomento era cieca e sorda, ella fingeva di non accorgersi quando mi picchiava o m’insultava, benché egli ciò facesse spesso in presenza di lei, ma più spesso quando non c’era.
Essendo assuefatta ad ubbidire a John, mi accostai alla seggiola sua. Egli stette tre minuti a mostrarmi la lingua, allungandola quanto più poteva, sapevo che stava per picchiarmi e spiavo sulla sua brutta faccia il momento in cui la collera gli avrebbe fatto allungare la mano.
Credo che s’accorgesse del mio pensiero, perché a un tratto si alzò senza dir parola, e mi colpì duramente.
Barcollai e poi rimettendomi in equilibrio, mi allontanai di un passo o due dalla sua sedia.
— Questo è per l’impudenza con cui avete risposto alla mamma, — mi disse, — e per esservi nascosta dietro la tenda e per lo sguardo che avevate negli occhi poco fa, talpa!
— Assuefatta com’ero agli insulti di John, non mi venne neppur l’idea di rispondergli; ponevo ogni cura invece nel sopportare coraggiosamente il colpo, che avrebbe tenuto dietro all’insulto.
— Che cosa facevate dietro la tenda? — mi domandò.
— Leggevo.
— Fatemi vedere il libro.
— Mi diressi verso la finestra per prenderlo.
— Non c’è bisogno che prendiate i nostri libri; dipendete da noi, dice la mamma; non avete quattrini, vostro padre non vi lasciò nulla; dovreste andare ad accattare invece di star qui con noi, che siamo figli di signori, di mangiare i medesimi cibi che mangiamo e di esser vestita alle spese della mamma. Ora v’insegnerò a frugar nella mia biblioteca, perché questi libri sono miei, tutto mi appartiene in casa, o mi apparterrà fra pochi anni. Andate vicino alla porta, lontano dallo specchio e dalla finestra.
Ubbidii senza sapere che intenzione avesse; ma quando vidi che alzava il libro e far atto di gettarmelo contro, mi tirai istintivamente da parte, mandando un grido d’allarme. Non fui però abbastanza pronta; il volume volò per aria e mi colpì nella testa; io caddi e battendo nello spigolo della porta mi ferii.
La ferita sanguinava ed io provai un gran dolore: ma il terrore era svanito per dar luogo ad altri sentimenti.
— Perfido e crudele ragazzo! — dissi, — siete simile a un assassino, a un guardiano di schiavi, a un imperatore romano!
Avevo appunto letto la storia di Roma di Goldsmith e mi ero fatta un concetto di Nerone, di Caligola, che non credevo di dover esporre mai a voce alta.
— Come! Come! — esclamò. — Dice a me forse? L’avete sentita, Eliza, Georgiana? Vado a dirlo a mamma, ma prima...
Egli si slanciò contro di me, e mi sentii afferrare per i capelli e per le spalle con disperato furore. Io vedevo realmente in lui un assassino, un tiranno. Sentii scendermi dalla testa e cadere sul collo una o due gocce di sangue e provai un’acuta sofferenza; queste sensazioni per un momento dominarono la paura e mi resero furente.
Non so dire quello che io facessi con le mani, ma John mi chiamava: “Talpa!
Talpa!” e continuava a insultarmi. Egli fu subito soccorso.
Eliza e Georgiana erano corse a chiamar la mamma, che era salita al piano superiore. La signora Reed entrò durante quella scena, seguita da Bessie e da Abbot, la cameriera. Ci separarono ed io sentii dire:
— Dio mio, che orrore! Percuotere il signorino John!
— Avete mai visto una rabbiosa come questa?
Allora la signora Reed soggiunse:
— Portatela nella camera rossa e chiudetevela dentro.
Quattro mani mi afferrarono e io fui trascinata su per le scale.  

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