giovedì 5 aprile 2012

i mercoledì del piacere (questa settimana in ritardo): fulvio cervini

qual è l’idea di piacere durante le pause dall’attività produttiva per chi lavora in ambito creativo? ecco quella di fulvio cervini.

I nonni rappresentano le migliori figure iniziatiche allo studio e all’uso della storia, e per riflesso al piacere intellettuale che ne deriva. Almeno è la convinzione che ho maturato nel tempo, attraverso un cortocircuito di cronologie comparate. Se salute e fortuna mi saranno propizie, dovrei trascorrere nel secolo XXI la maggior parte della mia vita; mio nonno materno, nato nel 1897 e morto nel 1986, è solo apparentemente lontano da me, perché le nostre vite si sono sovrapposte per più di vent’anni. Egli non ha peraltro fatto nulla di eccezionale, nel corso della sua lunga vita (e proprio per questo diventa un caso esemplare), a meno che non lo sia dividere le esperienze di milioni di suoi coetanei che hanno attraversato periodi dolorosi e cruciali. Eppure, quando era parecchio più giovane di me, si trovò a combattere una guerra contro i soldati di un imperatore che quando era salito al trono aveva ai suoi ordini un maresciallo ottuagenario che non solo aveva combattuto contro Napoleone, ma era nato al tempo di Maria Teresa (le soluzioni a questa specie di indovinello sono nell’ordine Grande Guerra, Francesco Giuseppe, Radetzky): a pensarci, il nonno aveva davvero a che fare con un altro mondo, ancora più lontano dal nostro di quanto non fosse il suo. Con tre nonni si arriva nel XVIII secolo, epoca che par remotissima e invece scopriamo quasi domestica; perché in ogni nostra famiglia ricordiamo qualcuno che in questa prospettiva a cannocchiale rischia di farci l’effetto inquietante di quell’omino russo dalla barba lunga, che i Lumière filmarono durante l’incoronazione di Nicola II nel 1896: non tanto perché fosse un reduce della battaglia di Borodino, forse l’ultimo sopravvissuto (non possiamo averne l’assoluta certezza e la cosa non è ormai rilevante), quanto perché risulta essere l’unico uomo del Settecento mai catturato dal cinema.
Noi siamo definiti dal vissuto della nostra stirpe, da coloro con i quali i nostri padri nonni e trisavoli sono entrati in contatto, da quel che hanno visto o sentito, da quel che hanno fatto e disfatto, costruito e annientato; ma ciò accade anche e soprattutto perché esiste una memoria tramandata e condivisa di questi fasci di esperienze, e perché se né è costruita una storia attraverso la rielaborazione critica. Chi ha avuto un parente sul Piave o sul Carso non se ne renderà conto, ma un poco calpesta ancora il fango di quelle trincee.
 Il senso di discendenza da una tradizione può essere colto anche da esempi meno cruenti. Circa vent’anni fa ascoltai un grande pianista cubano, Jorge Bolet, che era diventato un finissimo interprete di Liszt: un destino quasi scritto dai primi passi, perché Bolet era stato allievo di un allievo di Liszt. Se pensiamo che il primo maestro di Liszt bambino era stato Antonio Salieri, ci sono bastati tre musicisti per un altro balzo all’indietro di due secoli. Con un piccolo sforzo si arriva in un nulla a Bach, a Monteverdi e a Machaut; ovvero, cambiando campo, a Leonardo o a Giotto, all’Ariosto o a Chaucer. Tutti costoro sono tra noi perché sono rimaste le loro opere, ma noi siamo quel che siamo anche perché essi sono stati. Possiamo dire che c’era Salieri nelle dita di Bolet? Magari in proporzioni minime, ma c’era. L’interprete di un brano musicale è tale non solo perché legge ed esegue una partitura scritta dieci, cinquanta, cento o cinquecento anni prima, ma anche perché egli ha ereditato quella tradizione musicale, che continua ad agire in lui e che, se è un bravo interprete, deve riuscire a comunicare, a condividere (e magari a ricostruire, aggiornare, reinventare). Anche a rimuovere, per ridisegnare una nuova libertà creativa, purché ciò sia frutto di consapevole scelta: dimenticare ha senso solo se si sa dimenticare e si sceglie di dimenticare, così come bisogna scegliere di ricordare e saper ricordare. Ricordare qualcosa comporta che si dimentichi qualcos’altro. Fare storia significa, né più né meno, fare nostra l’appartenenza critica a un passato e misurarci quotidianamente con esso; e sforzarsi di diventare migliori – e di crescere in quanto persone – attraverso la volontà di capirlo. Ciò comporta riattivare il passato che è in noi. Donatello è altro da me, e per guardarlo con cognizione devo fare ricorso a tutti gli strumenti critici che mi permettano di collocarlo nel suo tempo (non diversamente da quel che facciamo con i nonni). Ma affinché Donatello parli al mio cuore devo anche saper risvegliare il Donatello che si è sedimentato dentro di me. Padri nonni e trisavoli continuano ad agire nella nostra memoria, ma è la storia a farceli sentire. Sentire la storia dentro di noi è forse la radice più profonda del piacere intellettuale. E non è un piacere riservato ai soli professionisti. Purché si abbia una storia da ascoltare, da assimilare e da raccontare.
Visto che si è cominciato parlando di conflitti, mi piace pensare allo storico come a colui che recupera quel che resta del giorno dopo una notte di guerra, cercando di attribuire un senso a quei reperti perché l’umanità possa continuare a servirsene. La sua missione non è dunque soltanto tecnica, ma etica; e poiché i reperti sono il più delle volte vere testimonianze materiali, ivi comprese le opere d’arte, lo storico può a buon diritto essere considerato un restauratore (anche perché come lui deve stare attento a non diventare un falsario). Tutto ciò assume i contorni di un imperativo categorico che non sembra lasciare spazio al piacere, per quanto molti dei manufatti recuperati e indagati dallo storico-restauratore abbiano un valore estetico che talvolta sembra trascendere quello storico: ci piacciano, cioè, indipendentemente dal fatto che noi riflettiamo su chi e per chi li abbia fabbricati, quando e perché.
In verità questa missione non può realizzarsi senza la condivisione dei risultati, e non c’è vera condivisione se non si ritiene che niente di umano debba essere alieno da noi: fine del lavoro sono le persone, non il lavoro e nemmeno noi stessi (se non in quanto partecipiamo dell’umanità, e per questo ogni morte di uomo ci diminuisce). Ritrovare e ripensare i frammenti è compito che richiede attrezzatura tecnica e rigore deontologico. Ma non sarebbe possibile senza quel valore aggiunto di passione che distingue la prestazione intellettuale dal piacere intellettuale. Colui il quale per professione racconta un avvenimento del passato, descrive un dipinto, analizza un passaggio musicale, traduce un brano poetico, deve essere motivato da un amore per la vita senza il quale viene meno il nerbo del suo lavoro e il senso della sua utilità sociale. Il vero piacere intellettuale consiste nel recuperare quei frammenti per dividerli con chi si ama – idealmente, con l’umanità intera – e dunque vivere meglio grazie ai frammenti recuperati. Lo storico è colui che riesce a fare della storia l’alimento quotidiano del suo dare (e darsi) agli altri. Nell’Apologie pour l’Histoire – un aneddoto noto da un libretto famoso – Marc Bloch racconta di come lui e Henri Pirenne si trovassero un giorno a Stoccolma, e Pirenne, appena arrivato, gli proponesse di andare a vedere non un luogo storico, ma il nuovo municipio. A Bloch che gliene chiedeva ragione, Pirenne rispose che se fosse stato un antiquario non avrebbe avuto occhi che per le cose vecchie. Ma era uno storico, e dunque amava la vita. Lo stesso Bloch amava la vita al punto da venire ucciso dai nazisti nel 1944. Non tutti capiscono cosa sia il piacere intellettuale, non tutti lo provano. E talvolta quelli che non lo provano o non lo capiscono vogliono strapparlo a chi lo nutre, e se ne nutre. Il piacere intellettuale è pericoloso, perché educa ad essere uomini.

chi è
Nato a Sanremo nel 1964, nel 1990 si è laureato in Storia dell’Arte Medievale con Adriano Peroni presso l’Università di Firenze. Nel 1995 ha conseguito il dottorato di ricerca in Storia dell’Arte all’Università di Roma “La Sapienza e dal 1996 al 1998 è stato borsista post-doctoral nella Scuola Normale Superiore di Pisa. Dal maggio 1999 all’ottobre 2005 è stato storico dell’arte direttore nella Soprintendenza per il Patrimonio Storico, Artistico ed Etnoantropologico del Piemonte, dove si è occupato fra l’altro di tutela territoriale delle Province di Alessandria e di Verbania, e ha ricoperto l’incarico di direttore dell’Armeria Reale in Torino (2001-2005). Dal 2002 al 2005 è stato docente a contratto di Storia comparata dell’arte dei paesi europei presso l’Università di Pisa. Dal novembre 2005 è professore associato di Storia dell’arte medievale all’Università di Firenze. Cervini è anche rettore dell’Accademia della Pigna di Sanremo.

2 commenti:

Maria Rita ha detto...

A volte sì, anche inconsapevolmente, chi non prova o capisce il Piacere intellettuale riesce a mortificarlo in chi se ne nutre o prova passione a trasmetterlo.
Mi veniva in mente la scuola, è così che è diventata ora purtroppo. Non dappertutto, ci sono isole felici... ma chi prova tale piacere e lo trasmette con passione, con forza... per far crescere, è spesso colpito dal sospetto altrui, dal momento che chi non prova o non capisce tale gioia si chiederà sempre il perché della perdita di tempo... senza giungere mai ad una conclusione che vorrebbe utilitaristica o 'conveniente' a tutti i costi! Grazie per questi angoli di Piacere: Maria Rita

aa ha detto...

sono completamente d'accordo riguardo al tuo commento sulla scuola. quello che descrivi è un atteggiamento esiziale. aa