domenica 18 novembre 2012

bookcity uno

Premessina su Bookcity: non ho visto tutto e non mi è piaciuto particolarmente. Non so se sia stato comunicato efficacemente: molti non avevano neanche idea di cosa fosse. Come manifestazione diffusa non c’è male. L’ingresso al Castello sforzesco, come sempre, pareva un mercatino di qualche paese del terzo mondo, altro che città del libro e della lettura: non si sarebbe potuto cercare un po’ di decoro, almeno per l’occasione? E comunque.

Alle 11:45 di questa mattina Marco Rossari, nell'ambito delle iniziative della manifestazione milanese, ha tenuto una lettura gaddiana alla libreria Centofiori: pagine dall’Adalgisa e dalla Cognizione del dolore, e l’esilarante Teatro:

“Rimasi al buio.
Non vidi più Giuseppina, né i Biassonni, né i Pizzigoni, né il grand’ufficiale Pesciatelli.
In preda a un leggero batticuore, mi chiedevo che stesse accadendo, allorché apparvero delle rocce, percorse da un fremito: si gonfiavano come la vela toccata dal marezzo: come per bonaccia poi si abbiosciavano. Qualche metro più in là il cielo dell’alba, con lo zaffiro richiesto dal caso: da un lato aveva assunto un aspetto lievemente verdastro in seguito a una riparazione.
Da dietro le rocce sbucarono, suscitando la curiosità generale, un uomo corpulento e una donna assai pingue, stretta per altro nella ritenutezza d’un robusto fasciame cosparso di vetruzzi.
C’era per aria un vecchio dispiacere.
Presero difatti a rinfacciarsi l’un l’altra i loro diportamenti: ella con lodoleschi trilli e occhi di ex-vipera. Egli bofonchiò truce le più spropositate assurdità. Parevano dapprima un po’ timidi, oh! ma si rinfrancarono tosto.
Inorgogliti dalle luci color indaco, violetto e giallo canarino che gli aiuti-elettricisti proiettavano sopra di loro, eccitati dall’invidia e dall’ammirazione che venivan suscitando in tutti gli altri, rimasti così miseramente al buio, essi tranghiottivano a tratti, nelle pause, la tenue saliva del loro magnifico “io”.
Egli, poi, andava giustamente superbo d’un elmo dorato e d’una scimitarra argentata dal tintinnio metallico come di posateria presso l’acquaio.
Vestiva lo smagliante costume dell’ammiraglio persiano, con calzari di cuoio al cromo riccamente adorni di gemme di vetro; aveva vinto Sardanapalo e i suoi temibili congiunti Agamennone e Pigmalione: si esprimeva concitatamente, mediante settenari sdruccioli e tronchi.
I più significativi provocavano dei violenti starnuti in ottanta uomini ordegni che un signore in frack teneva a disposizione dell’ammiraglio.
La donna, una faraònide, vestiva a sua volta in modo superiore a ogni previsione.
Dodici lunghi pennacchi, rigidi ed aperti a ventaglio, corroboravano di un’aureola tacchinesca il santuario della pettinatura.
Per diademi e collane fascinanti barbagli, come ai bastioni Genova, con altri timpani, quella che il serpente carezza.
Diademi, collane; occhiaie bleu. L’abito rosa trapunto di stupende pagliuzze metalliche; lo strascico una scopatrice stradale.
Raccontò del suo crin e ci fornì elementi circostanziati sulle principali peripezie del suo sen; non trascurò l’alma; illustrò le forme più tipiche del verbo gire, coniugandolo al participio, all’imperfetto, al passato remoto e al trapassato imperfetto; propose alcuni esempi di quella parte del discorso detta dai grammatici interiezione, scegliendoli con gusto e opportunitа fra i più rari della nostra letteratura, quali “orsù ” e “ahi! lassa”.
Tutto questo con gutturazioni impeccabili; le ultime, le più acute erano addirittura l’ì, ì, ì d’una porta malvagiamente irrugginita, che si chiuda a scatti, nella beffa d’un ragazzo malvagio.
Quando l’ultima vibrazione dell’ultimo ghirigoro si spense nel sepolcro notturno, un raggio di speranza arrideva ai nostri cuori fascinati: ma l’ammiraglio, che non aspettava altro (avendo nel frattempo ripreso fiato) scoppiò nelle più truculente vociferazioni.
Rimasi esterrefatto. Mi spiegai per altro la gravità del caso, di fronte al quale le mie modeste preoccupazioni di ingegnere elettrotecnico dovevano necessariamente passare in seconda linea: la pericolante successione al trono d’Egitto, cui portavano inciampo gli amorazzi della ben nota regina Semiramide, veniva a complicarsi ulteriormente per effetto delle mire ambiziose di Giocasta e di Maria Teresa. […]”

Rossari ha letto e interpretato benissimo, si vede che ama Gadda con tutto il cuore: entra fino in fondo, quasi mimetizzandosi, nella flamboyante sterminata capacità lessicale dell’ingegnere, ne condivide il prosare sarcastico, si diverte sinceramente alle sue iperboli. La sua voce completa la sensazione di sinestesia indotta dalla pagina di Carlo Emilio: quando ha letto Teatro si sentivano le voci dei cantanti, si vedevano i colori e le luci, si potevano toccare le vesti di scena.
Marco Rossari non si stira la camicia ma è una persona seria. Autore, tra gli altri, di L’unico scrittore buono è quello morto, traduttore e giornalista, rappresenta il meglio degli studiosi semigiovani, quelli che studiano davvero e non pubblicano una rivista online con altre persone che non si stirano la camicia.

1 commento:

Anonimo ha detto...

Grande Anna.
E gli assenti rosicano.
Mannaggia.

Randa