venerdì 25 marzo 2011

Qualora lo ritenesse meritevole

[…] la vostra personale osservazione del modo in cui accadono le cose nel mondo – il modo in cui si rivela il carattere – può trasformare una scena spenta in una scena piena di vita. Un buon consiglio preliminare potrebbe essere: scrivete come se foste una macchina da presa. Riprendete esattamente quello che c’è sul posto. Tutti gli esseri umani vedono con sorprendente precisione, ma non è detto che sappiano mettere quello che vedono sulla carta. […] Mettere giù le cose in modo esatto è tutto ciò che s’intende per “precisione dell’occhio dello scrittore”. […] La maggior parte degli individui non ha ancora sviluppato quello che Hemingway chiamava “rivelatore incorporato di stronzate a prova d’urto”. Ma lo scrittore che mette per iscritto esattamente ciò che vede e prova, revisionando accuratamente di volta in volta, fino a che non ci crede completamente, facendo caso ai momenti in cui ciò che sta dicendo è mera retorica o visione derivativa, facendo caso ai momenti in cui ciò che ha detto non è nobile o d’effetto ma sciocco – quello scrittore, se c’è giustizia nel mondo, sopravvivrà alla rocca di Gibilterra.
John Gardner, Il mestiere dello scrittore, Marietti, Genova 1989


Nato, cresciuto e invecchiato al Musocco, a quel quartiere attaccato come una concrezione a uno scoglio, Nebbia si prende d’amore per una trapezista e nel giorno di San Valentino lascia Milano per una nuova vita. È il paradigma di una città che cambia; nel caso di Dove finisce Milano – Nebbia, pendolari e altre storie, uscito per i tipi di Pietro Macchione Editore, cambia sotto gli occhi di un non milanese che a Milano arriva dalla provincia e da Milano riparte tutti i giorni.
“Qualora lo ritenesse meritevole”: così si conclude, a proposito di una eventuale recensione di chi scrive al suo libro, la lettera dell’autore Lorenzo Franzetti (qui, sul suo blog, una minibiografia).
E chi scrive ha trovato il libro molto meritevole. Sono trentuno racconti dalla periferia (“tra il Cimitero Maggiore e l’inceneritore di Pero”) che si aprono su un autobus e si concludono su un treno, in maggioranza brevi come sketch, in cui si mostra in azione l’hemingwayano rivelatore incorporato di stronzate in dotazione a Franzetti.
Il racconto che apre il volume restituisce con grande competenza scatologica l’aria greve del “lunedì del pendolare”: autobus impregnati della Grande puzza (il titolo del racconto), sintesi maleolente di “uomini e mezzi, bestie di ogni razza, ognuno con il proprio odore”. Il medesimo filo scatologico percorre molti dei racconti, in cui alcuni personaggi ricorrono: come il già citato Nebbia, anarchico scalcagnato e “terrorista delle piccole cose”; lettore di free press e di libri mandati al macero dalle biblioteche milanesi che preleva da un misterioso deposito nei pressi del cimitero; produttore in proprio di pomodori, che coltiva in un orto abusivo e concima con i suoi stessi escrementi (“Nebbia l’ha presa così seriamente che, di questi tempi, cura la propria alimentazione in modo equilibrato, vuole produrre roba di salute”).
Sotto lo sguardo dell’autore, lieve ma non ingenuo, sfilano nel quartiere e nei suoi dintorni tabaccaie meridionali prossime alla pensione, il trattore Pio, fiero baluardo contro l’avanzata dei fast food, preti e leghisti dal cuore d’oro, impiegati cornuti e partigiani ossessionati dalla crisi che tentano di portare i propri spiccioli in Svizzera. È un libro, questo di Franzetti, pieno di umori, di odori – dall’escremento al risotto –, di parole in dialetto milanese, in cui si vede il nuovo che avanza dal punto di vista di un quartiere ai margini paradossalmente immobile. Il disagio di una città in pieno processo di adattamento all’ingresso degli “altri” è parzialmente redento dall’empatia dell’autore che aleggia pietosamente sull’ignoranza, la piccineria, la congenita eccentricità di certe figure metropolitane, sugli abitanti antichi e sui nuovi venuti, su venditori di rose bengalesi, vedove con penchant sadomaso e parroci in leggera malafede.
Ho cominciato a leggere Dove finisce Milano in metropolitana, e ho capito che era un buon libro perché quasi sbagliavo fermata.
Buon viaggio, Franzetti. Da un’altra ostinata viaggiatrice.
Milano, Cimitero Maggiore, Campo della Gloria. Courtesy aned.it


E adesso qualche appunto squisitamente tecnico
Pietro Macchione è un piccolo editore che non conosco. Posso però intuire, da certi aspetti di mancata cura del testo, che come quasi tutti i piccoli sia piccolo pure nel numero dei collaboratori pagati, e che pertanto, come fanno in molti, per quello che attiene alla ricerca dei refusi si affidi solo alla buona volontà dell’autore. Si affidano alla fortuna, poiché ci sono autori che producono una gran quantità di imprecisioni, dato che si concentrano su altri aspetti. Oltre al correttore di bozze è mancato anche un editor che consigliasse all’autore come far risaltare certe parti ed eliminarne altre – piccole cose, beninteso – a beneficio di una maggiore efficacia, di una maggiore incisività. Editori, risparmiate sulla qualità della carta, piuttosto, ma abbiate più cura di quel che vi si affida. Finis


5 commenti:

Alina ha detto...

Per me un libro contro corrente, una volta tanto senza sangue che scorre. Per fare letteratura non serve.

Anonimo ha detto...

A proposito dell'appunto "squisitamente tecnico": ho una domanda di carattere storico per l'ottima curatrice del blog. La domanda è la seguente: Alessandro Manzoni aveva un editor? Lev Tolstoj, Italo Calvino, Victor Hogo... avevano un editor? Quando si è sentita l'esigenza di affiancare all'autore una figura professionale che facesse un po' di "maquillage" al prodotto del suo genio? La domanda tra le righe ovviamente è: se un autore è veramente grande, ha veramente bisogno del lavoro dell'editor? Cioè, un conto è la saggistica, dove è chiaro che il massimo esperto - che so - di vulcani, magari non ha sufficienti cognizioni per rendere l'opera leggibile e godevole. Ma per la letteratura... Grazie per la risposta e complimenti per tutto. Raffaella

aa ha detto...

cara raffaella,

la rimando a un articolo molto chiaro di stefano salis, sul sole 24 ore, che corrobora la mia risposta in merito alla necessità di un editor (la cui opera naturalmente va calibrata a seconda dei casi) per testi anche di scrittori molto grandi (vedi eliot): la mia risposta è sì, in moltissimi casi sì. condivido inoltre in pieno la definizione che dell'editor dà nicola lagioia.

buona lettura e grazie per il suo commento,

aa


http://www.scribd.com/doc/51664482/Il-correttore-che-non-e-automatico-Siete-un-autore-alle-prime-armi-Avete-Il-Sole-24-ORE

Anonimo ha detto...

Manzoni non aveva un editor, ma aveva interlocutori autorevoli e di spessore con i quali si confrontava. I carteggi dei grandi scrittori del passato sono preziosissime testimonianze per comprendere molto bene l'evoluzione della loro scrittura e della loro letteratura. Io, modesto autore (per carità) al debutto narrativo, non avevo mai pensato di interpellare un editor, prima che anna me lo suggerisse. Tuttavia, sentivo e sento il forte bisogno di un confronto e ringrazio Anna per aver accettato, in maniera del tutto disinteressata. Cosa più unica che rara, nel panorama editoriale e narrativo odierno.
l'autore

Frank ha detto...

Innanzitutto un'osservazione. Il titolo del libro ricalca quello del libro di Aner Shalev: Dove finisce New York...
Manzoni, per quanto sia detestabile e detestato, è comunque colui che ha inventato la lingua italiana, quindi non mi pare utilizzabile come esempio.
Ovviamente, il mestiere dell'editor è molto giovane, e avrà la sua ragion d'essere(per me piuttosto misteriosa, anche se anch'io svolgo ogni tanto quel lavoro), in parte legata alla 'modernità'. La nostra blogger forse potrebbe chiarirci le idee. Se non lei, chi?