martedì 27 settembre 2011

i frammenti della scuola ulpan_shmuel yosef agnon

Per quello che mi riguarda, se qualcuno di cui ho fatto il bene mi risponde con il male, mi ha persa per sempre. Ecco cosa ne pensa Shmuel Yosef Agnon, che oltre al Racconto della capra ha scritto anche i Racconti di Gerusalemme. Credo non vengano ristampati da tempo. Io ce li ho.

bookfast (writers for breakfast)_manzoni

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 “Carneade! Chi era costui?”, ruminava tra sé don Abbondio seduto sul suo seggiolone, in una stanza del piano superiore, con un libricciolo aperto davanti, quando Perpetua entrò a portargli l’imbasciata. “Carneade! questo nome mi par bene d’averlo letto o sentito; doveva essere un uomo di studio, un letteratone del tempo antico: è un nome di quelli; ma chi diavolo era costui?”. Tanto il pover’uomo era lontano da prevedere che burrasca gli si addensasse sul capo!
Bisogna sapere che don Abbondio si dilettava di leggere un pochino ogni giorno; e un curato suo vicino, che aveva un po’ di libreria, gli prestava un libro dopo l’altro, il primo che gli veniva alle mani. Quello su cui meditava in quel momento don Abbondio, convalescente della febbre dello spavento, anzi più guarito (quanto alla febbre) che non volesse lasciar credere, era un panegirico in onore di san Carlo, detto con molta enfasi, e udito con molta ammirazione nel duomo di Milano, due anni prima. Il santo v’era paragonato, per l’amore allo studio, ad Archimede; e fin qui don Abbondio non trovava inciampo; perché Archimede ne ha fatte di così curiose, ha fatto dir tanto di sé, che, per saperne qualche cosa, non c’è bisogno d’un’erudizione molto vasta. Ma, dopo Archimede, l’oratore chiamava a paragone anche Carneade: e là il lettore era rimasto arenato.

lunedì 26 settembre 2011

cultura e natura_classicisti in famiglia

si sa, talvolta i libri si devono confezionare anche se gli autori non sono disponibili in loco e allora talvolta è necessario parlarsi al telefono. così oggi mi sono messa a mio agio e mi sono preparata a una telefonata che si preannunciava lunga, con un autore che ha scritto un testo complesso, denso di rimandi e di riferimenti variegati. l'uomo è una persona seria, che scrive cose quali "Che l’io lirico delle Fleurs rinviasse a questo struggente episodio dell’Eneide richiamato come una epifania transmentale, non interessa soltanto i francesisti e gli interpreti di Baudelaire". e abbiamo discusso, talvolta impercettibilmente scontrandoci, su molte questioni di merito e di forma (alcune di lana caprina). a un certo punto, da roma, si è sentito il suono di un citofono, e dopo pochi minuti ha fatto il suo ingresso nella dimora dell'autore emendante una bambina presumibilmente di pochi anni, che per qualche motivo continuava a piangere, in compagnia di una mamma o di una tata un pochino spazientita. l'autore si è scusato e, mentre chi scrive attendeva al telefono, è andato a sedare la piccina con un po' di praticissima tele. la nostra conversazione è ripresa con profitto fino a che, verso la fine, il mio facondo interlocutore mi ha pregata una seconda volta di aspettarlo un momento, perché, ha detto, "devo accendere l'acqua sotto la bambina". e queste cinque o sei parole hanno rivelato la fragilità della patina intellettuale che ricopre il mai sedato istinto primordiale dell'assassino.

la bella città dei due mari

e il suo quotidiano locale. grazie al collega mimmo grieco, splendido cacciatore di paradossi e cose grottesche.

cose che si possono fare con un moleskine senza righe o quadretti

via booklicious.

nel caso foste aspiranti omicidi,

e voleste compiere il vostro delitto da psicopatico nelle profondità di acque che tutto attutiscono e lavano, dal 29 settembre sarà disponibile presso il lidl quello che nella loro newsletter è evidenziato come l'affare della settimana: la sega a immersione qui a destra. dotata, tra l'altro, di una lama con denti in metallo duro.

ulpan_vera delicatezza nell'altra

Il frammento di testo in ebraico scelto questa volta dagli studenti della scuola Ulpan per la traduzione in italiano è da un libro di Yaakov Shabtai dal titolo assai suggestivo: Vera delicatezza nell'altra. Non conosco il testo, ma queste misteriose parole velate di tenerezza mi suscitano senz'altro il desiderio di continuare a leggere.

sabato 24 settembre 2011

bookfast (writers for breakfast)_flaubert

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 Ricominciarono i giorni terribili di Tostes. E adesso lei si riteneva ancor più infelice: aveva l’esperienza del dolore, aveva la certezza che non avrebbe mai finito di soffrire.
Una donna che si era imposta sacrifici così grandi, poteva pur concedersi qualche capriccio. Si comprà un inginocchiatoio gotico; spese in un solo mese quattordici franchi di limoni per pulirsi le unghie; ordinò a Rouen un vestito di cachemire turchino; scelse la più bella sciarpa di Lheureux; la portava annodata intorno alla vita sopra la vestaglia; dopo aver chiuso le imposte, prendeva un libro e se ne restava sdraiata sul divano, così, in quello strano abbigliamento.
[…]
Volle imparare l’italiano: acquistò dizionari, una grammatica, una provvista di carta bianca. Tentò letture impegnative, storia, filosofia. La notte, a volte, a Charles capitava di svegliarsi di soprassalto, credeva che lo venissero a chiamare per un malato.
“Vengo”, balbettava.
E invece era il rumore di un fiammifero strofinato da Emma per riaccendere la lampada. Ma alle sue letture toccava la stessa sorte dei suoi ricami, che, appena incominciati, riempivano l’armadio, le abbandonava presto, passava ad altro.
Aveva crisi nel corso delle quali avrebbe potuto facilmente arrivare a qualche stravaganza. Un giorno, tanto per dar torto al marito, sostenne che sarebbe stata in grado di bere un mezzo bicchiere d’acquavite, e, poiché Charles fu tanto stupido da accettare la sfida mandò giù l’acquavite sino all’ultima goccia.
Nonostante la sua aria svanita (questa parola usavano le borghesi di Yonville), Emma non appariva certo allegra, aveva quasi sempre agli angoli della bocca quella immobile contrazione che segna la faccia delle vecchie zitelle, degli ambiziosi delusi. Era tutta pallida, livida come un cencio lavato; la pelle del naso le si stirava verso le narici, i suoi occhi ti guardavano in modo vago. Si scoprì tre capelli grigi sulle tempie e allora cominciò a parlare dl vecchiaia.
Spesso era assalita da capogiri. Un giorno sputò persino sangue, e, poiché Charles era impressionato e lasciava apparire la sua inquietudine, disse: “Bah! cosa importa?”.
Charles andò a rifugiarsi nel suo gabinetto; si mise a piangere, con i gomiti sul tavolo, seduto nella sua scranna da ufficio sotto la testa frenologica.
Allora scrisse a sua madre, la pregò di venire. Ebbero lunghi consulti a proposito di Emma.
Che partito prendere? Cosa fare dal momento che lei si rifiutava a ogni cura?
“Sai cosa ci vorrebbe a tua moglie?”, ripeteva la vecchia Bovary. “Ci vorrebbe un’occupazione, un bel lavoro manuale! Se come tante altre fosse costretta a guadagnarsi il pane, non avrebbe mica tanti fumi per la testa. Sai da dove le vengono? Da quel mucchio di idee balorde, dal troppo ozio in cui vive.”
“Eppure qualcosa fa”, diceva Charles.
“Fa? Ma cosa? Legge romanzi, legge cattivi libri, legge opere contrarie alla religione, prese in giro dei preti con ragionamenti presi in prestito da Voltaire. Tutto questo ha per forza delle conseguenze, povero ragazzo mio. Ricordatelo: chi non ha religione finisce sempre male!”.
E così dunque venne deciso che si sarebbe impedito a Emma di leggere romanzi. Certo l’impresa non pareva facile. A ogni modo la vecchia se ne assunse ogni responsabilità: passando da Rouen si sarebbe presentata al libraio comunicandogli che Emma rinunciava al suo abbonamento. Non avrebbero avuto il diritto di ricorrere alla polizia nel caso che il libraio avesse nonostante tutto persistito nel suo mestiere di avvelenatore?

e mentre al castello sforzesco si svolgeva il seminario di cui sotto



























questo signore leggeva beatamente, di Valerio Massimo Manfredi, L'armata perduta.

leggere, eccepire, combattere_dopo un seminario sul libro


E dunque venerdì chi scrive ha spento il telefono e chiuso qualunque altro canale di comunicazione che potesse consentire agli importuni di disturbare e ha trascorso una magnifica giornata di seminario formativo alla Biblioteca Trivulziana. I relatori hanno declinato ciascuno la propria visione del valore del libro, di cui si è parlato molto in termini di valore, proprio monetario. 
Da sinistra, Ornella Foglieni, Paolo Chiesa, Gabriele Mazzotta
Isabella Fiorentini, dell’Archivio della Biblioteca, ha addirittura dichiarato che, in una assurda ipotesi di vendita della biblioteca (e gli acquirenti, dice, non mancherebbero), ciascun volume non varrebbe meno di nove milioni di euro. E tutto questo nonostante la perdita di valore simbolico e di utilità sociale di questo oggetto, cui non può evidentemente sopperire il solo interesse degli specialisti: esiste, dice Fiorentini, un pericolo di musealizzazione delle biblioteche come la Trivulziana, il pericolo che i libri siano percepiti come oggetti d’arte bastanti a sé stessi. I tre ingredienti proposti da Isabella per condurre una biblioteca sono 1. idee; 2. salda consapevolezza professionale; 3. impegno morale. 
Maria Antonietta Grignani durante la pausa pranzo del seminario: un venditore ambulante cerca di venderle dei libri, in via Dante

Grignani fuma con gusto, da autentica bad girl
E in qualche modo di ambito morale ha parlato anche Maria Antonietta Grignani –  direttore del Fondo manoscritti del Centro di Ricerca sulla Tradizione Manoscritta di Autori Moderni e Contemporanei, Università degli Studi di Pavia (dove è conservato l’archivio Manganelli, per intenderci) – quando ha narrato, con sapida ironia, di certi eredi che vendono le carte dei propri avi scrittori invece che donarle. Grignani stava una spanna sopra gli altri relatori per un’eccezionale capacità di catturare i suoi ascoltatori, un’autentica allure da popstar consumata. Alcuni, dice, raccontano fanfaluche (sì, proprio fanfaluche ha detto) minacciando di andare a vendere i documenti in America. Ed è proprio per evitare siffatti ricatti che questi beni dovrebbero essere tutelati dalla legge, dichiarati inesportabili. Chi vende, dice Maria Antonietta, fa un danno enorme alla memoria del proprio paese.

Mario Scognamiglio con Annette Popel Pozzo della Biblioteca di via Senato
Insieme con Grignani l’idolo assoluto della giornata è stato Mario Scognamiglio dell’Aldus Club (notizie di servizio qui, datate ma valide ai nostri fini informativi), un ottantacinquenne ragazzo pieno di entusiasmo che ha parlato di Aldo Manuzio e del suo protocatalogo editoriale pubblicato nel 1498, nonché del sogno aldino di rigenerare l’umanità attraverso la cultura, e delle librerie antiquarie come nobili botteghe (lui, di queste nobili botteghe, ne conduce una a Milano, in via Rovello, che è anche la sede dell’Aldus). “Tutti dobbiamo fare questo sforzo di promozione del libro”, dice Mario (il quale, civettuolo, dopo la relazione e dovendo tornare in ufficio, ha chiesto a chi scrive “Me la sono cavata?”. “Egregiamente, come sempre”, ho risposto, e non avrei più voluto lasciargli la mano, felice come un’adolescente al primo autografo del suo cantante preferito), “poiché alla fine vinceremo: la cultura paga!”. La folla era in delirio, io pure, e a stento ci si è ripresi per ascoltare Cristiano Collari, un esperto del mercato antiquario dal cui discorso ho appreso l’esistenza di una Compendiosa bibliografia di edizioni bodoniane di Hugh C. Brooks. Le slides con cui lo accompagnava, poi, mi hanno dato un temporaneo, pixellatissimo accesso a qualche pagina di una meravigliosa copia illustrata dei Sonetti lussuriosi di Pietro Aretino, venduti all’asta a Parigi qualche anno fa per trecentocinquantamila euro.
E insomma, a stare lì, in quel loco ameno, tra ameni parlari, con le parole di Grignani che ancora mi risuonavano in capo (la signora è una studiosa vera, eccentrica come solo certe competentissime signore possono essere: sentirla parlare di manoscritti e varianti dava la voglia di non tornare mai più a casa), mi sono tornate in mente certe cose che avevo letto giorni prima sul sito di “Finzioni”, una sorta di manifesto sul diritto dei lettori: 

“Il valore di un libro può essere solo ed esclusivamente determinato dal giudizio che i lettori ne danno nel corso del tempo. Se ciò era più difficile fino a qualche tempo fa, perché i lettori non avevano una voce pubblica – o questa non trovava una via di espressione adeguata – ora l’aggregazione è resa più semplice dai progressi tecnologici: come effetto, emerge più forte e articolato quel discorso pubblico che i lettori sviluppano intorno a un libro. La Repubblica dei Lettori ha schiarito la sua voce e ora sta parlando”; il lettore dovrebbe esigere incondizionatamente “che editor, redattori, grafici, stagisti e qualsiasi altra figura professionale dell’editoria lavori nel rispetto dei diritti, della legge, della dignità umana e professionale, con la certezza di un salario giusto e commisurato alle proprie capacità – i lettori sono cittadini consapevoli, informati, battaglieri”; e la conclusione (qui il testo integrale): “Queste sono le nostre richieste, e la lista non è certo esaustiva. Ciascun lettore può e deve arricchirla, integrarla, approfondirla. La Repubblica dei Lettori decide collettivamente cosa vuole e come lo vuole”. 

Io, alla mia bella età, sono stata molto felice di imparare qualcosa dalla signora Grignani, l’altro giorno. Mi sentivo moderatamente consapevole, moderatamente informata e per nulla battagliera. Più che altro ero contenta. Pur lavorando in editoria, quando prendo in mano un libro non mi preoccupo affatto di quanto abbia guadagnato lo stageur o l’editor: questa parte la lascio volentieri ai sindacalisti. Caldeggio l’esistenza dell’auctoritas per evitare la mediocritas (ché tutta questa democrazia della rete, queste valutazioni dal basso possono essere molto rischiose). Grignani e Scognamiglio forever.
La sala Weil Weiss della Trivulziana vista dal basso

venerdì 23 settembre 2011

paventa chi dovrebbe ventilare

io desidererei che autori radiofonici (ascolto radio popolare di milano mentre mi vesto) e televisivi si rendessero conto che esiste una differenza ben definita tra il verbo

paventare = [pa-ven-tà-re]
  • Temere qlcu. o qlco.: p. il nemico; anche con arg. espresso da frase (introd. da di o che): p. di non essere all'altezza, che cambi la situazione
  • sec. XIV

e

ventilare  = [ven-ti-là-re]
  • 1 Aerare, portare aria fresca in un ambiente: v. una stanza
  • 2 Fare investire cereali o legumi secchi da una forte corrente d'aria, per mondarli delle impurità: v. il grano
  • 3 fig. Prospettare, proporre un'idea all'analisi di più persone; freq. al passivo: è stata ventilata l'ipotesi della cassa integrazione
  • • sec. XIV


e, dato che ci siamo, faccio osservare che in radio e in televisione e sui giornali, in italia, è tutto un pop up, pop up, pop up, pop up.

giovedì 22 settembre 2011

alla scuola di ebraico ulpàn

si continua alacremente a tradurre.

il ritmo della giornata


CHAUD BOULET!

albanacco_antonio saura

Antonio Saura, Femmefauteil, 1988
Pablo Picasso, Femme au fauteil no. 4, 1949
ricorre oggi il genetliaco dell'artista spagnolo antonio saura, che compirebbe ottantuno anni ma non può, dato che è morto nel 1998. ha aderito al surrealismo, ha prodotto una serie di femmefauteils (però quelle di picasso erano più belle), quadri, sculture, illustrazioni per libri (tra gli altri kafka e cervantes) e una piccola serie di commenti grafici ad articoli di giornali, selezionati da saura nel corso del 1994, molto accattivanti, dal titolo nulla die sine linea, che si possono vedere qui.

bookfast (writers for breakfast)_tozzi

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 Da ragazzo mi compravano pochi libri. Mio padre voleva ch’io non leggessi; e, con la scusa che mi sarei sciupato gli occhi, non cavava mai un soldo di tasca. Quei cinque o sei che avevo, li tenevo insieme con la biancheria; e m’avveniva che, quando tiravo il cassetto per prendere una camicia o altro, ne aprivo uno e leggevo senza muoverlo dal suo posto.
Ma, un capodanno, la mia donna si decise a comprarmi per regalo, avendo io insistito fin da un mese prima, quel libro del Verne che si chiama Nel paese delle pellicce. Io cominciai a leggerlo, ma non andavo mai in fondo, perché tornavo sempre alle pagine a dietro.
Finalmente, dopo un tre mesi, giunsi all’ultima pagina come se quelle avventure fossero toccate a me. E più d’ogni altra cosa, forse, mi rimase a mente una figura dov’era un orso che voleva entrare dentro una capanna.
Tutte le volte che ho visto orsi veri, ho sempre pensato a quello; e come, guardandolo, per un bel pezzo mi scuotevo e mi smuovevo tutto.

la pausa della signora conducente

la quale ha pensato bene, nell'intervallo tra una corsa e l'altra del tram numero trentatré, di applicarsi lo smalto sulle unghie. invece della solita seduta di free press.

mercoledì 21 settembre 2011

ulpàn_imparare l'ebraico moderno e anche molte altre cose


Ecco i motivi per i quali, secondo la scuola di lingua ebraica Ulpàn di Milano, sarebbe cosa buona studiare l’ebraico (chi scrive aggiunge che, questi motivi, li condivide tutti):

- perché è una lingua che riscalda il cuore...
- perché al di là dell’ebraico biblico si è dimostrata una lingua capace di vivere ancora, con una forza e una vitalità dirompente, una lingua di unità per gli ebrei giunti in Israele da tutto il mondo. E poi perché è estremamente elegante
- perché è sempre bello imparare una nuova lingua, specialmente se legata a una letteratura così interessante
- per conoscere sentieri mentali diversi di quelli delle lingue europee
- perché ci permette di avvicinarci, nonostante la nostra finitezza, alle origini, al nostro passato, al nostro presente e al futuro che ci aspetta. Ogni traduzione, per quanto esaustiva, è un’interpretazione limitata e spesso fuorviante
- per capire l’originale della Parola di Dio
- perché è difficile!!! È una sfida entrare in una mentalità differente a partire da quelle “letterine” così misteriose e ricche di passato
- perché è bellissimo
- per esercitare la mente con un alfabeto differente

Chi desiderasse un appetizer delle meraviglie dell’Ulpàn si rechi sulla bacheca della sua pagina Facebook, dove nella rubrica Con parole loro compaiono brevi citazioni da testi in ebraico, seguite dalla traduzione fatta in classe dagli studenti del corso di grammatica ebraica e lettura testi condotto da Doron Mittler, autore di una Grammaticaebraica pubblicata da Zanichelli. Qui, qui, qui, qui, e qui si possono trovare i primi post pubblicati.

Presso la scuola si può frequentare anche un corso di storia e pensiero ebraico, che chi scrive trova particolarmente appetitoso. Tutto questo accade a Milano, presso l’Istituto Don Bosco, in via Tonale 19.

bookfast (writers for breakfast)_dostoevskij

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Negli ultimi anni erano cresciute e maturate tutt'e tre le figlie del generale, Aleksandra, Adelaida e Aglaja. A dire il vero, tutt'e tre erano soltanto Epancin, ma principesse da parte di madre, con una dote non piccola, con un padre che poteva aspirare in seguito, forse, ad un'altissima carica, e, pure abbastanza importante, erano tutt'e tre notevolmente belle, non esclusa la maggiore, Aleksandra, che aveva ormai venticinque anni compiuti. La seconda aveva ventitré anni e la minore, Aglaja, ne aveva appena compiuti venti. Quest'ultima era anzi una vera bellezza, e in società cominciava ad attirare su di sé una grande attenzione. Ma questo non era ancora tutto. Tutt'e tre si distinguevano per istruzione, intelligenza e doti naturali. Era notorio che si volevano un gran bene, e si sostenevano l'un l'altra. Si ricordavano persino certi sacrifici compiuti dalle due maggiori a favore della minore, che in casa era l'idolo di tutti. In società non soltanto non amavano mettersi in mostra, ma erano persino troppo modeste. Nessuna poteva rimproverarle d'esser superbe e arroganti, e fra l'altro si sapeva che erano orgogliose e consapevoli di quanto valevano. La maggiore era musicista, la seconda una notevole pittrice, ma quasi nessuno ne aveva saputo nulla per molti anni, e lo si era scoperto solo negli ultimi tempi e per caso. In una parola, di loro si facevano elogi straordinari. Ma c'erano anche le persone malevole. Si parlava con spavento del fatto che avevano letto tanti libri. Non avevano fretta di maritarsi; apprezzavano un certo ambiente sociale, ma non troppo, e ciò era tanto più notevole in quanto tutti sapevano le tendenze, il carattere, le ambizioni e i desideri del loro genitore.

l'editing di faccio testo_renzo ferrari

È in uscita per i primi di ottobre il volume Renzo Ferrari - Opere 1990-2010, per i tipi di Skira editore, con la curatela di Francesco Porzio: Faccio Testo ne ha curato l'editing. L'artista è nato nel 1939 a Cadro (Lugano). A incontrarlo di persona è un tizio alla Bukowski, piuttosto sulfureo: bestemmia senza remore e infiora volentieri il proprio eloquio di gros mots.
Renzo Ferrari durante la riunione in casa editrice per il controllo del menabò del suo libro
Indossa uno di quei gilet che chi scrive adora ma non ha il coraggio di comprare per sé, nelle cui tasche custodisce i suoi moleskine, straripanti di appunti e di schizzi, bellissimi da vedere.
I moleskine che abitano le tasche del gilet di Renzo Ferrari
Scrive il curatore nella sua premessa: "Nelle sue opere migliori  l’artista sembra incarnare le “interfacce” multiple e frammentate del flusso mediatico che ci avvolge in un’esperienza viva e contraddittoria, e perciò di significato umano ben più ampio. ... Non c’è dubbio che Ferrari giunge a questo risultato grazie a una ferrea tutela della libertà e della freschezza dell’immagine. Quest’ultima è il frutto di un’improvvisazione controllata, alimentata ('scaldata') dall’esercizio preliminare del disegno." 
Renzo Ferrari, Stanza rossa, 1997
Renzo Ferrari, Stanza verde, 1997
E questa è la voce dell'artista a proposito delle due opere qui sopra, pubblicate nel libro (qui i colori risultano spenti, mentre gli originali sono infinitamente più sanguigni) : "In quel momento aspiravo alla 'réalisation'. Qui significa essere al contempo liberi e precisi, mantenere la freschezza dell’immagine. Forse c’è l’esempio di Matisse, un pittore che non è mai 'sudato' (Picasso lo è di più), che non s’inceppa. Da lui, e anche dai suoi scritti, ho appreso la libertà dell’espressione. Matisse comincia con lo schizzo a fusain, poi ne fa un altro molto 'giapponese' e automatico a penna, cioè parte dal modello retinico ma poi quando arriva alla pittura va in assoluta libertà e souplesse, è il quadro che lo conduce. Questa è la libertà dell’artista. L’artista può anche partire da un elemento di cronaca, ma poi il linguaggio deve avere una sua purezza nell’arrivare allo scopo, nel comunicare in modo profondo e non illustrativo l’esperienza dell’immagine. Ecco, questi due quadri forse testimoniano un risultato fresco del mio lavoro, dove non si sente più il sudore, la fatica nell’acquisire che avevo prima. Attenzione però, perché se la facilità diventa un partito preso si scade subito nel manierismo. Se una cosa la sai già fare allora non ha più senso, non è più avventura."
Al lavoro nel suo atelier
 

martedì 20 settembre 2011

ultimi lampi d'estate

e ultimi bermuda indossati dal ragazzino qui accanto – peluria appena accennata sul viso, a un passo dall'entrata in un corpo adulto –, che sul tram numero 33 legge, di Carla Maria Russo, La sposa normanna.

bookfast (writers for breakfast)_anna frank

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Domenica, 14 giugno 1942.
Venerdì 12 giugno ero già sveglia alle sei: si capisce, era il mio compleanno! Ma alle sei non mi era consentito d’alzarmi, e così dovetti frenare la mia curiosità fino alle sei e tre quarti. Allora non potei più tenermi e andai in camera da pranzo, dove Moortje, il gatto, mi diede il benvenuto strusciandomi addosso la testolina.
Subito dopo le sette andai da papà e mamma e poi nel salotto per spacchettare i miei regalucci. Il primo che mi apparve fosti tu, forse uno dei più belli fra i miei doni. Poi un mazzo di rose, una piantina, due rami di peonie: ecco i figli di Flora che stavano sulla mia tavola quella mattina; altri ancora ne giunsero durante il giorno.
Da papà e mamma ebbi una quantità di cose, e anche i nostri numerosi conoscenti mi hanno veramente viziata. Fra l’altro ricevetti un gioco di società, molte ghiottonerie, cioccolata, un “puzzle”, una spilla, la Camera Obscura di Hildebrand, le Leggende olandesi di Joseph Cohen, le Vacanze di montagna di Daisy, un libro straordinario, e un po’ di denaro, così che mi potrò comperare i Miti di Grecia e di Roma. Che bellezza!
Poi Lies venne a prendermi e andammo a scuola. Nell’intervallo offrii dei biscottini ai professori e ai compagni e poi ci rimettemmo al lavoro.
Ora devo smettere di scrivere. Diario mio, ti trovo tanto bello!

nomen omen


ricevo e pubblico dal collega cosimo grieco, ubicato in taranto, dove è stata fotografata la targa nomen omen.

lunedì 19 settembre 2011

cose da fare a milano il 22 settembre

No, non è la Trivulziana: è la Kansas City Public Library
Partecipare al seminario 
“Il valore del libro: tra prodotto culturale, oggetto di mercato e bene da tutelare”
22 settembre 2011, ore 10.30-12.30, 14.00-17.30, 
Milano, Biblioteca Trivulziana, Sala Weil Weiss, Cortile della Rocchetta
Organizzato dalla Soprintendenza ai Beni Librari della Regione Lombardia

albanacco_david bromberg

oltre che di William Golding, oggi è anche il compleanno di david bromberg, nato nel 1945 e interprete di una delle più belle versioni di Mr. Bojangles che abbiate mai ascoltato. chi scrive è collezionista di versioni di Mr. Bojangles e parla a ragion veduta. enjoy.

albanacco_william golding

 "Accettavano i piaceri del mattino, il bel sole, il palpito del mare, l'aria dolce, come il tempo adatto per giocare, un tempo in cui la vita era così piena che si poteva fare a meno della speranza".
Il signore delle mosche, 1954

oggi ricorre il compleanno di William Gerald Golding, nato nel 1911 e morto nel 1993.

bookfast (writers for breakfast)_christie

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La stanza in cui entrammo era una specie di biblioteca. Le pareti erano ricoperte di libri, i mobili erano scuri, severi ma belli, le sedie si adeguavano allo stile ma non erano affatto comode. Lord Edgware si alzò per riceverci. Era un uomo alto, di circa cinquant’anni. I capelli neri erano striati di bianco, la faccia era magra e la bocca aveva una piega cinica e beffarda. Pareva un uomo dal cattivo carattere e amareggiato. Nei suoi occhi c’era uno strano sguardo diffidente. Pensai che quegli occhi erano assai particolari. Le sue maniere si rivelarono rigide e formali. […]
“Vi conosco di fama, signor Poirot. Chi mai non ha sentito parlare di voi?”. Poirot apprezzò con un gesto della testa il complimento. “Non riesco tuttavia a comprendere la vostra posizione in questa faccenda. Voi mi dite che desiderate incontrarmi per conto della...” – fece una pausa – “di mia moglie.”
Pronunciò quelle ultime due parole in modo strano, come se facesse fatica a formarle.
“Infatti”, ammise Poirot.
“Mi sembrava di aver capito che voi vi interessavate di delitti, signor Poirot.”
“Di problemi umani, lord Edgware. Spesso di delitti, è vero. Ma ci sono anche altri problemi.”
“Lo ammetto. E, in questo caso, qual è il problema che vi interessa?”
Il tono della sua voce era apertamente sarcastico, ora. Poirot fece finta di non accorgersene.
“Ho l’onore di parlarvi a nome di lady Edgware”, disse. “Lady Edgware, come voi forse sapete, desidera divorziare.
“Lo so benissimo”, ammise freddamente lord Edgware.
“Lei vorrebbe che noi discutessimo questa evenienza.”
“Non c’è niente da discutere.”
“Allora rifiutate?”
“Rifiutare? Certamente no.”
Qualunque risposta si aspettasse Poirot, non era certo questa. Mi è accaduto raramente di vedere il mio amico preso alla sprovvista: questa occasione fu una delle più interessanti. Divenne persino ridicolo: aprì la bocca, sollevò sorpreso le mani e le sopracciglia. Pareva una caricatura.
Comment?!”, esclamò. - Che succede? Non rifiutate di concederle il divorzio? […] Quali particolari circostanze vi hanno fatto cambiare opinione, lord Edgware?”
“È una questione personale che non desidero discutere, signor Poirot. Diciamo che ho gradualmente capito il vantaggio che avrei tratto a sciogliere quello che socialmente consideravo un rapporto degradante. Il mio secondo matrimonio è stato un errore.”
“Lo dice anche vostra moglie.”
“Davvero?”.
Ci fu uno strano guizzo nei suoi occhi che subito scomparve. Si alzò con l’atteggiamento di chi vuol mettere fine a un colloquio e, nel salutarci, le sue maniere si fecero meno rigide.
“Vi prego di scusarmi per aver dovuto anticipare il nostro appuntamento, ma devo assolutamente essere a Parigi domani.”
“Non è il caso.”
“Ci sarà un’asta e io ho messo gli occhi su una statuetta. Un oggetto perfetto anche se un po’ macabro. Ma a me è sempre piaciuto il macabro. Ho gusti strani, lo ammetto.”
E di nuovo quel suo strano sorriso. Avevo osservato durante il colloquio i libri sugli scaffali. Vi avevo notato le Memorie di Casanova, tutte le opere del marchese di Sade e molti volumi sulle torture medievali. Mi ricordai che Jane Wilkinson era rabbrividita quando aveva parlato del marito. Non stava recitando. Mi era sembrata naturale. Mi chiesi che tipo d’uomo era George Alfred Saint Vincent Marsh, quarto baronetto di Edgware.
Ci salutò nuovamente in tono gentile, suonando un campanello: quando uscimmo, il suo maggiordomo dal fisico di una divinità greca ci stava aspettando nell’atrio. Mentre chiudevo alle mie spalle la porta della biblioteca dove ci aveva ricevuto, gli lanciai un’ultima occhiata. Mi trattenni a stento dall’emettere un’esclamazione. La faccia che prima era stata atteggiata a un sorriso quasi gentile si era trasformata. Le labbra tese a scoprire i denti davano vita a un ghigno orrendo, negli occhi lampeggiava uno sguardo che rasentava una sorta di insana furia selvaggia.