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La pagina di vita spiegata sotto i miei occhi mi sembrava ottusa e banale, soltanto perché non avevo scandagliato il suo significato profondo. C’era là un libro più bello di quanti riuscirò mai a scrivere, che si dispiegava sotto i miei occhi pagina dopo pagina, dettato dalla realtà dell’attimo fuggente, pronto a dileguarsi non appena scritto, soltanto perché il mio cervello era privo di introspezione e la mia mano non aveva la capacità di metterlo sul foglio. Un giorno, nel futuro, forse rammentando alcuni frammenti sparsi e paragrafi spezzati, scoprirò trascrivendoli che le lettere si trasformano in oro. Queste percezioni sono giunte troppo tardi. Al momento ero consapevole soltanto che quanto, un tempo, sarebbe stato un piacere, era ormai una fatica disperata. Non era il caso di gemere per quello stato di cose. Avevo smesso di essere uno scrittore di racconti e saggi tollerabilmente mediocri per diventare un sovrintendente di dogana tollerabilmente capace. Ecco tutto. Non è tuttavia affatto gradevole essere perseguitato dal sospetto che il proprio intelletto si stia dileguando e inconsapevolmente evaporando come l’etere da una fiala, sicché, a ogni occhiata, si scopre un residuo ridotto e meno volatile. Su questo non c’erano dubbi e, valutando me stesso e gli altri in relazione all’effetto che aveva sul carattere un ufficio pubblico, ero portato a trarre conclusioni poco propizie. Forse in seguito svilupperò in altra forma queste notazioni. Basti qui dire che ben difficilmente un funzionario di dogana, in servizio da tempo, sarà un personaggio rispettabile o degno di lode, per molte ragioni, una delle quali è la titolarità stessa dell’incarico, un’altra è la natura del lavoro che – pur essendo onesto, ne sono convinto – è di tale genere che il funzionario non partecipa allo sforzo comune dell’umanità.
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