Sono stata un’adolescente molto stupida. I miei amici e io vivevamo in piazza Garibaldi, nell’avita città che mi diede i natali. Ci eravamo trasferiti là dopo essere stati cacciati, forse per motivi di ordine pubblico, da piazza della Vittoria, giusto al di là della galleria, perché (si era a metà degli anni settanta del secolo scorso) esisteva uno schieramento manicheo, da una parte quelli che venivano definiti fascisti, dall’altra i comunisti, i piccoli drogati, la gente in cerca di qualche cosa; e poiché le provocazioni di entrambe le fazioni erano all’ordine del giorno, spesso volavano mazzate.
In piazza facevamo la spola tra il muretto, che era il nostro divano, e il Gran Bar Colizzi, che ora non è più. Al bar trovavamo un cameriere segaligno, scuro di capelli e di pelle, afflitto da quell’atteggiamento tutto tarantino che sta tra il cinismo, il disincanto e la rassegnazione. Nulla ci diceva mai, quel mescitore dallo sguardo torvo. Il suo contrappunto, un cameriere dalla faccia larga, ci serviva d’inverno grandi bicchieri di latte caldo e vov, quell’ambrosia allo zabaione che solo uno stolto può non adorare; fu proprio questo cameriere a informarmi che per il raffreddore nulla è più efficace delle tre elle: latte, letto e lana. Volevamo vivere da un’altra parte, perciò, quando per strada qualcuno ci chiedeva un’indicazione, rispondevamo: “Non so, non sono di Istanbul”. Nella piazza suonavamo la chitarra, cantavamo e stavamo in mezzo a coetanei che si drogavano seriamente. La piazza raccoglieva un microcosmo assai miscellaneo ed era, per me, una favolosa passerella sulla quale sperimentare mises inedite: fece molto scalpore una lunga redingote nera che si allacciava con una teoria di piccolissimi bottoni dello stesso colore, portata su un paio di calzoni a sbuffo rosa shocking, che avevo convinto mia nonna, brava sarta innamorata della sobrietà, a confezionarmi nonostante tutto. Completavano l’abbigliamento un paio di stivali di cuoio grasso, bellissimi, provenienti dal Brasile: al tempo non esistevano ancora gli abatini dell’equo/eco/animal-solidale che avrebbero potuto contestare la mia scelta – il cuoio era proprio cuoio, altro che ecopelle, e mio padre aveva comprato quegli stivali da qualche artigiano locale a un prezzo ridicolo. All’epoca le ragazze indossavano volentieri, a mo’ di abiti, anche candide camicie da notte, che il canone prescriveva corredate di zoccoli di legno. Ma io, che mi ribellavo pure ai ribelli, agli zoccoli preferivo i miei stivalacci.
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