Visualizzazione post con etichetta dada. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta dada. Mostra tutti i post

domenica 23 maggio 2010

adodo, dada e l'oulipo

in quel di bologna risiede fabio rizzoli, un amico editor che sta lavorando a un ambizioso ciclo di scritti miscellanei srotolantisi al trascorrere delle stagioni, uno per ogni giorno, di cui è stato dato pubblico assaggio nell'edizione di marzo di "linus", dove l'antipasto di fabio è stato servito nella rubrica dedicata agli esordienti curata da matteo b. bianchi. non credo che fabio mi biasimerà se pubblico un frammento dell'imponente corpus-to-be, che mi ha molto divertita:
"3 marzo
Mi fregio di essere un alfiere di una professione emergente, che sono convinto avrà una diffusione sempre maggiore. Il mio lavoro è quello del demotivatore. Dopo il boom degli anni Ottanta e Novanta, il periodo in cui non solo ogni manager ma persino qualsiasi casalinga doveva rafforzare l’autostima per essere pronta a tutto, dal camminare sui tizzoni ardenti a gestire una fusione di compagnie multinazionali, siamo finalmente entrati in un periodo di riflusso, in cui il low profile è sempre più apprezzato dalla società.
Le aziende mi chiamano per azioni di coaching specifiche, mirate ad abbassare il livello di motivazione dei membri del quadro dirigenziale. Mi trovo quasi sempre davanti a cocainomani che lavorano come invasati, si pongono obiettivi che trascendono la sana ambizione e mirano piuttosto all’onnipotenza.  Hanno alle spalle famiglie allo sfascio, una salute minata dallo stress, una vita personale che si riduce al momento in cui dicono “Il pieno, grazie” al benzinaio. E qui intervengo io." 
rizzoli ha letto perec e sicuramente non ignora l'oulipo, né l'ottimo max aub. dico questo perché, oltre alla saga stagionale che ha in grembo, fabio ha pubblicato, con un pugno di amici, qualche numero di "adodo", una rivista che presto diverrà rarissima sul mercato antiquario, nella quale gli scarsi redattori facevano tutto, all'insegna del falso, dell'invenzione, del pastiche, del grottesco. non solo alle avanguardie del novecento sembra debitore "adodo" (che un po', mi pare, è parente di dada), ma anche del più puro marenco anni settanta: nell'Epopea di Shazzir, labrano di Guandar, risuonano irresistibili gli echi di Alto gradimento: "Ugnolando, alzando la sbagarda in capo al suo esercito, Shazzir si getta con fredore e ardimento nella mischia". e marenco: "Chi si sveglia di mattina con un'inguercibile sgatoscio che gli ingromma il cardio, siede stroncamente sul burlo del giaculo, orando e occhia il Metrotempo" (da Lo scarafo nella brodazza). 
e dallo Zagabriale del numero 3: "... Ci teniamo a sottolineare che pubblichiamo esclusivamente ciò che riteniamo di alto livello ... Cataloghi di penne stilografiche, manuali di prefazione, lettere minatorie, sceneggiature di reality show: non ci sarà limite alla voracità di 'Adodo'. In questo numero vi presentiamo la lettera di dimissioni, un genere relativamente recente (nasce con la burocrazia), ma con una storia ben delineata e un ventaglio di sottogeneri. Non dimentichiamo che, anche per la lettera di dimissioni, ci troviamo in una fase per così dire postmoderna". tutto, in "Adodo", è inventato di sana pianta, gli autori, le loro biografie, i loro scritti, proprio come di sana pianta il già citato max aub inventò biografia, scritti e opere dell'immaginario artista contemporaneo di picasso jusep torres campalans. adodo è un bambino che somiglia al principe felice, epperò tristo, malmostoso e stralunato. "Adodo" è una pubblicazione di Raz Morieau e LaDonna Smith, presentata da Suki-ho-Rizomi. non so dove se ne possa reperirne un numero (non chiedetemi i miei), ma se fossi in voi mi metterei alla ricerca.

mercoledì 3 febbraio 2010

cose turche


Sono stata un’adolescente molto stupida. I miei amici e io vivevamo in piazza Garibaldi, nell’avita città che mi diede i natali. Ci eravamo trasferiti là dopo essere stati cacciati, forse per motivi di ordine pubblico, da piazza della Vittoria, giusto al di là della galleria, perché (si era a metà degli anni settanta del secolo scorso) esisteva uno schieramento manicheo, da una parte quelli che venivano definiti fascisti, dall’altra i comunisti, i piccoli drogati, la gente in cerca di qualche cosa; e poiché le provocazioni di entrambe le fazioni erano all’ordine del giorno, spesso volavano mazzate.

In piazza facevamo la spola tra il muretto, che era il nostro divano, e il Gran Bar Colizzi, che ora non è più. Al bar trovavamo un cameriere segaligno, scuro di capelli e di pelle, afflitto da quell’atteggiamento tutto tarantino che sta tra il cinismo, il disincanto e la rassegnazione. Nulla ci diceva mai, quel mescitore dallo sguardo torvo. Il suo contrappunto, un cameriere dalla faccia larga, ci serviva d’inverno grandi bicchieri di latte caldo e vov, quell’ambrosia allo zabaione che solo uno stolto può non adorare; fu proprio questo cameriere a informarmi che per il raffreddore nulla è più efficace delle tre elle: latte, letto e lana. Volevamo vivere da un’altra parte, perciò, quando per strada qualcuno ci chiedeva un’indicazione, rispondevamo: “Non so, non sono di Istanbul”. Nella piazza suonavamo la chitarra, cantavamo e stavamo in mezzo a coetanei che si drogavano seriamente. La piazza raccoglieva un microcosmo assai miscellaneo ed era, per me, una favolosa passerella sulla quale sperimentare mises inedite: fece molto scalpore una lunga redingote nera che si allacciava con una teoria di piccolissimi bottoni dello stesso colore, portata su un paio di calzoni a sbuffo rosa shocking, che avevo convinto mia nonna, brava sarta innamorata della sobrietà, a confezionarmi nonostante tutto. Completavano l’abbigliamento un paio di stivali di cuoio grasso, bellissimi, provenienti dal Brasile: al tempo non esistevano ancora gli abatini dell’equo/eco/animal-solidale che avrebbero potuto contestare la mia scelta – il cuoio era proprio cuoio, altro che ecopelle, e mio padre aveva comprato quegli stivali da qualche artigiano locale a un prezzo ridicolo. All’epoca le ragazze indossavano volentieri, a mo’ di abiti, anche candide camicie da notte, che il canone prescriveva corredate di zoccoli di legno. Ma io, che mi ribellavo pure ai ribelli, agli zoccoli preferivo i miei stivalacci.

Era un tempo in cui individui barbuti, aggressivi o depressi, si riunivano esprimendo la volontà di incendiare edifici o di ammazzare capitalisti; individui egualmente barbuti o depressi fumavano una quantità incalcolabile di spinelli, da alcuni acculturati definiti anche joint, ciò che conferiva una patina di internazionalità a certi deprimenti convegni con obiettivi di sballo. Siccome queste persone mi rattristavano, preferivo accompagnarmi con alcuni maniaci che mi sostenevano nelle mie imprese di sottrazione di libri alle biblioteche: conservo ancora come un cimelio i Manifesti del dadaismo e Lampisterie di Tristan Tzara, rubato, o meglio mai riconsegnato, alla biblioteca di Aosta durante una trasferta. Fu così che scoprii come si fa una poesia dadaista, nonché l’esistenza di Monsieur Antipyrine. Sulla Storia del surrealismo di Maurice Nadeau, invece, crebbe tra me e un adepto di Roma una passione folle. Sentendoci come Achille e Patroclo, leggevamo il libro in contemporanea, ciascuno sulla propria copia, e poi ne parlavamo, citando Breton, Aragon, Picabia come fossero divi, come un adolescente ai giorni nostri cita qualche rapper. Ho maturato la mia passione per il wrestling partendo dal catch, così come è descritto da Roland Barthes nei suoi Miti d’oggi. Col mio amico Panarelli, poi, ero un’adoratrice del mango in tutte le sue forme, dal vivo frutto al tè in bustine; e insieme indossavamo un profumo maschile dal suggestivo titolo Macassar, prodotto da Rochas, che coniugava in sé l’assenzio, il geranio, il fiore di tabacco, il cedro e lo zenzero.

martedì 6 maggio 2008

per fare una pubblicità dadaista


prendete un giornale.
prendete le forbici.
scegliete nel giornale un articolo della lunghezza che desiderate per la vostra poesia.
ritagliate l'articolo.
ritagliate poi accuratamente ognuna delle parole che compongono l'articolo e mettetele in un sacco.
agitate delicatamente.
tirate poi fuori un ritaglio dopo l'altro disponendoli nell'ordine in cui sono usciti dal sacco.
copiate scrupolosamente.
la poesia vi somiglierà.
ed eccovi divenuto uno scrittore infinitamente originale e di squisita sensibilità, benché incompresa dal volgo.

l'iconoclasta ricetta ci viene dalla zurigo di inizio novecento, dove tristan tzara e i suoi compari del cabaret voltaire pazziavano in effervescenza, e si intitola per fare una poesia dadaista.

francisco guerra, un poeta del marketing come il suo amico brian glover, prende una macchina di quelle che sparano la neve artificiale, la riempie di una miscela di schiume e di elio e poi spara verso le nuvole logoi, brand, messaggi commerciali e tutto quello che gli dicono di sparare i suoi committenti. si chiama – assai suggestivamente – cloudvertising. certo, i flogos (flying logos, a dispetto del suono più sinistramente farmaceutico in italiano) non sono poesie di squisita sensibilità e sono fatte apposta per essere comprese da quanto più volgo possibile, ma quanta delicatezza, in questa idea di francisco.