martedì 12 gennaio 2010

lettori e scrittori sul tram numero due (e l'immigrato vladimir)

oggi sul tram numero due è proprio una cuccagna. il signore col cappello marrone, da gnomo mediorientale, scrive scrive scrive – ogni tanto leva lo sguardo e pensa, per poi tornare a scrivere. e scrive alacremente, un comune bloc notes appoggiato sulle gambe e una comune corvina gialla con cappuccio blu (ma perché non ha comprato una bic, che scorre meglio?). non conosce ancora, lo sprovveduto, l’esistenza del travelling desk (vedi post di ieri), un oggetto che potrebbe cambiare la sua esistenza. ma la star del tram è il ragazzo a sinistra, un pallido esemplare con pallida barbetta malcresciuta che legge, dio lo benedica, traditori di tutti di giorgio scerbanenco, secondo romanzo della serie che vede come protagonisti duca lamberti e milano.

giorgio scerbanenco, che nasce vladimir di primo nome, da padre ucraino trucidato in russia durante la rivoluzione e madre romana, è proprio l’immigrato che ogni nazione progredita vorrebbe accogliere: impossibilitato a completare le scuole (manco le elementari, finisce), studia come un pazzo, scrive, passa da un lavoro all’altro per poi fermarsi a quello editoriale. qualche considerazione, dalla sua stessa voce:


“Sono nato in Russia. Mio padre era russo, mia madre romana. A sei mesi di età mia madre mi riportò qui in Italia e qui crebbi, e la mia lingua madre fu l’italiano, e non ho poi più saputo altre lingue. Verso i diciotto anni diventai straniero, qui a Milano. Fino ad allora ero vissuto a Roma, in mezzo alle mie cugine, parlavo romanesco come loro, loro lo sentivano che io ero italiano, mia madre era la loro zia, dicevamo le stesse parolacce. […] Mio padre lo avevano fucilato in Russia i comunisti, ma dal modo come ne sentivo parlare dalla mamma […] sembrava un italiano anche lui. Più tardi ho imparato che gli ucraini, e mio padre era ucraino, sono i latini di Russia […]

D’improvviso, appena arrivato a Milano […], divenni straniero. Fuori dalla mia famiglia, in una città dove nessuno mi conosceva, rimaneva soltanto il mio nome, che era Vladimir Scerbanenko. Lei è russo? Rimanevo incerto. Cominciavo a spiegare ansioso: sono nato in Russia, ma ci sono stato solo fino a sei mesi di età, mia madre era italiana. […] Più tardi trovai anche un tipo di sinistra che mi chiese duro se mi vergognavo ad essere russo, visto che insistevo tanto a spiegare che ero italiano. Gli avrei messo la testa in un cassetto e poi chiuso con forza, perché questo capiva ancora meno degli altri. […]”


poi vladimir/giorgio trova un’occupazione presso la croce rossa:


“Nella caserma della Croce Rossa […] passavo le giornate leggendo e scrivendo, fra un servizio e l’altro. Di giorno non c’era quasi niente da fare […] Ma di notte la città cominciava a smaniare. […] Un’altra notte andammo a prendere un ubriaco alla guardia medica […] fu un’impresa metterlo in barella e caricarlo sull’autoambulanza: non ho mai visto niente di più vivo, di più sfrenato di quell’ubriaco. Diverse volte, poi, ho tentato di mettere nelle mie novelle qualcuno di questi avventurosi episodi, ma venivano ‘falsi’. Nelle novelle la verità sembrava una stonatura. […]”


poi zavattini, da rizzoli, gli accetta una novella e giorgio va all’incontro indossando una camicia ma non una cravatta:


“Così vestito facevo molto futuro scrittore, sembravano tutti convinti che io avessi grandi possibilità, e dopo qualche tempo fui assunto in redazione. Ero in un giornale, gli inizi erano finiti. […] Ero arrivato fin lì dopo troppa, troppa miseria. […] La miseria avvilisce, per lo meno a me rimpiccolisce, e chi scrive, invece, non deve aver timori, e deve vedere in grande”.


e a guerra finita, al ritorno dalla svizzera:


“Arrivai a Milano senza un soldo e che sparacchiavano ancora […] Ma questa volta avevo molti amici a Milano, Milano mi era già amica […] Avevo già passato i trent’anni e avrei dovuto imparare qualche cosa da quello che mi era successo. Ma solo più tardi imparai che non s’impara quasi mai niente. Noi rimaniamo sempre gli stessi. Le esperienze della vita […] ci impolverano un poco […], ma basta soffiare su quel po’ di polvere perché noi ritorniamo tali e quali eravamo prima di ogni insegnamento. Così continuai a commettere gli stessi errori. Per fortuna, lavorando quattordici, sedici ore al giorno, scrivendo quattro, cinque romanzi e centinaia di racconti all’anno, avevo poco tempo per commettere errori. Ma ne commettevo sempre.”


da Giorgio Scerbanenco, Io, Vladimir Scerbanenko, appendice a Venere privata, Garzanti, Milano 1990.


è un brano lungo, e forse l’ho riprodotto illegalmente. ma ne valeva la pena.


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