prima di entrare in argomento devo dichiarare la mia predilezione per il pop, che sia espressione visiva, letteraria, musicale. e per pop non intendo solo quello nobilitato e santificato dai libri su questa rivoluzionaria avanguardia degli anni sessanta, le marilyn replicate eccetera. intendo il pop pre-intellettuale, quello non ancora cosciente della sua codificazione.
per farla breve, ho adorato la canzone che i gemelli diversi hanno portato a sanremo.
normalmente mi verrebbe da sottolineare qualche lieve sgrammaticatura, censurerei la retorica e la melassa, sosterrei che il rap/hip hop/qualunque cosa sia italiano è una scopiazzatura bella e buona, ma com’è, come non è, questi gemelli diversi mi sono “arrivati”, come usano dire i discografici invitati a dispensare i loro giudizi ai talent show.
al confronto, poniamo, con quelle di marracash – un altro giovinastro rapper italiano, contemplatore del suo ombelico – che, si spera, cesserà presto di raccontarci quanto è stato duro crescere alla barona e di narrarci particolari su qualche equivoco scambio di bustine vicino a casa sua, la canzone di Strano, Grido, Thema e THG gode di un respiro ecumenico, spazia tra pianure più ampie. i nostri non mancano di citare, accanto al barbone affamato morto in un prato, il nonno del cantante, di cui si dice che ha disertato il duce; molte madri in difetto organizzativo, poi, si riconosceranno in quella attaccata alla bottiglia del verso tredicesimo. in questa preghiera rap in cui è costante, come mi fa notare una collega filosofa, il riferimento alla teodicea, si parla di molti e molto degli ultimi (ma non solo di quelli che sono nati in qualche quartiere depresso e firmano sui muri).
dal punto di vista della coreografia ho apprezzato molto anche il didascalico medio levato in alto in sincronia con il vaffa all’indirizzo del datore di lavoro (verso sesto dopo il primo ritornello), nonché lo chignon di stile giapponese del gemello che intona “ce l’hai un attimo per me?”, completato da un bel paio di grossi orecchini di perle. e mi piace anche l’effetto metallico conferito al ritornello, a temperare ciò che in altra forma potrebbe apparire come la petulante richiesta di aiuto emessa con voce standard da qualche mendicante di professione.
e insomma sì, cedo un pochino al sentimentalismo e dico che Vivi per un miracolo mi piace, mi piace proprio, perché mi fa pensare a mio nonno antifascista e a mio padre sindacalista (poi la tessera l’ha strappata, ma questa è un’altra storia) – non dirò in questa sede se mia madre si attaccasse alla bottiglia.
ho messo la canzone nell’ipod, e quando la canto a squarciagola con mia figlia, alla mia bella età, mi scappa pure il corno rap.
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