martedì 7 settembre 2010

Abramo, Polonia e vodka


Le nostre passioni sono delle vere fenici. Non appena una antica si consuma nelle fiamme, sorge dalle ceneri la nuova.
Johann W. Goethe

Ho finito di leggere Sangue di cane*, primo libro Laurana in uscita, come si è detto, il 10 settembre. Amor vincit omnia, pare il principio che informa coerentemente l’agire dell’io narrante, una ragazza di Siracusa nata in una famiglia normale (o forse no: questa famiglia è un po’ troppo tollerante) che coltiva un irreprimibile penchant per lo straordinario. Ed è extra-ordinario il tour guidato degli ultimi organizzato per il lettore dall’autrice, tra gli abitanti invisibili e miscellanei degli antri più fondi della città. Dalle spelonche maleodoranti di una Siracusa (ma potrebbe essere un’altra qualunque città) che ne vuole ignorare l’esistenza strisciano come blatte, alla ricerca di stordimento mediante alcol, torme di sordidi refrattari alla salvezza. La vicenda della relazione tra l’io narrante (il cui nome, nel libro, non ricorre mai, come se questa ragazza volesse ritirarsi nell’ombra per dare spazio e voce a chi non ce li ha. Epperò inevitabilmente una voce filtrata attraverso cultura sensibilità e idee del prestavoce: un’operazione di fatto arrogante, come le evangelizzazioni, come certe benefiche missioni) e Slawek (ci vorrebbe una elle polacca, nella traslitterazione, che non ho nella tastiera) è sviscerata fino all’ultimo frammento, sottoposta a una accuratissima autopsia in tutto il corso del romanzo. L’amante, poi marito, polacco è titolare di un’energia vitale che tutto gli consente, compresa una resurrezione continua dall’abuso di alcol, con la costante assistenza dell’io narrante-Maddalena, invariabilmente presente per ogni lavacro dei piedi. Slawek, il quale viene presentato come una sorta di Cristo che si redime e ci redime attraverso l’infinita serie di croci che si autoinfligge, è di fatto un vincitore, è colui che parte all'inseguimento di un'altra donna. Il Cristo autentico – quello con il messaggio per il mondo, quello che compie l’estremo sacrificio che non prevede  ritorno alla salute – è invece la ragazza, che pagherà il prezzo dei propri salvifici tentativi con la solitudine e la follia. È lei, Cristo, ed è lei anche Abramo, nella sua cieca fede pronta a sacrificare il figlio nato dalla relazione con Slawek sull’altare di un amore esigente, scuro, intriso di umori – sperma e vomito su tutto. Cronaca tra presente e flashback di una passione missionaria che non arretra di fronte ai miasmi più orrendi, Sangue di cane descrive un tentativo di inclusione condotto all’estremo, come cercare di far accettare al corpo una spina, un corpo estraneo che il corpo-società non vuole, e che nel rifiuto s’infetta e genera solo materia di scarto. Tomassini descrive molto efficacemente l’amour passion, in questo caso colorato da variante esotica. Agli occhi della ventiduenne siracusana, Slawek deriva gran parte della sua attrattiva dall'appartenenza al suo popolo – una miscela di forza fisica, di potenza sessuale, di volgarità e di malinconia, insieme con una fondamentale irresolutezza nei confronti dell’azione volta a risultati concreti. Perché in fondo, come spesso accade, il corpo guida, e in questo caso la stella polare è una verga polacca innestata in un corpo di sciagure. Come si diceva, a essere tratta nella follia, in un ribaltamento di senso, è l’ostinata salvatrice, la cieca desiderante, colei che volontariamente si vota alla cura, compito della femmina per eccellenza. E quello di Tomassini è un libro assai femminile, che offre una visione del destino culturale delle donne e pratica una trasgressione che sta nel portare la consapevolezza e la pratica di questo destino fino alle estreme conseguenze, fino a ottenere l’effetto contrario e paradossale.
Nel testo si trovano alcune cadute di ritmo, in specie quando il parossismo sentimentale ed erotico si stempera in qualche retorica (“Entrai nel vostro lutto, nella gloria dei diseredati”). È un po’ stucchevole, per quanto talora funzionale al ritmo stesso, il ricorso continuo al vocativo “polacco”, variamente completato da aggettivi (fiero, coraggioso, massiccio eccetera). Due cose fa molto bene Tomassini: 1. restituisce un quadro vividissimo, illuminandolo di una pur livida luce, di porzioni segrete delle nostre città ai tempi dell’immigrazione clandestina – nei punti migliori, non pochi, risalta la sua capacità di restituire con verosimiglianza (sia pure, talvolta, calcando un po’) una contemporaneissima tranche de vie; 2. descrive un certo senso di colpa occidentale (“… io soffrivo per il dolore degli altri. Io avevo dove tornare, avevo casa, avevo un figlio, avevo i genitori”), al quale l’io narrante si consegna contro ogni evidenza. Sangue di cane talvolta disturba, talvolta annoia (anche l’amore estremo a un certo punto stufa): eppure vale molto la pena di leggerlo.
Nota a margine: mi pare che questo volume d’esordio aderisca pienamente agli intenti dell’editore Laurana, già descritti qui.

* Dove si narra una vicenda che il senso comune potrebbe anche riassumere così: seguendo la propria dichiarata esterofilia e un interesse molto spiccato per gli ambienti devianti, una ragazza di Siracusa prende a frequentare un gruppo di mascalzoni slavi, tra cui spicca ai suoi occhi un ubriacone inveterato di nome Slawek. Nel novero delle sue malefatte troviamo rapine, tentati omicidi, adescamento di donne anziane allo scopo di barattare sesso con qualche spicciolo. Questo ignavo polacco, il quale avrebbe un urgente bisogno di frequentare un etnopsichiatra che tentasse di placare le sue manie autodistruttive (si taglia, cerca di darsi fuoco, beve litri di vodka a stomaco vuoto), riceve cure devote e costanti dalla ventiduenne di Siracusa che, invece di andare a visitare il Teatro Greco e l’Orecchio di Dionigi e di frequentare a sua volta uno psichiatra, preferisce accompagnarsi alla manica di spostati capitanati da Slawek.

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