Piccoli incontri con grandi architetti, uscito da qualche mese, raccoglie quindici
anni di colloqui che enrico arosio, storico giornalista
dell'"espresso", ha intrattenuto con architetti italiani e stranieri
sul senso della loro disciplina. il volume è pubblicato da Skira editore;
l'editing è stato affidato a Faccio Testo.
è un bel libro non illustrato
che parla dell'architettura come manifestazione della politica e parla molto
della città, una passione per il costruito che chi scrive condivide molto con
l'autore. le parole di arosio:
“[…] ho sempre pensato, e questo libro vuole ribadirlo, che l’architettura è, per natura sua, un grande fatto politico. Perché la città postindustriale è il luogo dei conflitti, della densificazione, degli incroci etnici, ma anche della formazione dei giovani, e dunque del futuro. E perché ripropone il senso originario della polis ateniese. È dai tempi di Pausania, in viaggio per le città greche nel II secolo dopo Cristo, che risuona l’ammonizione: dove la città versa in degrado è in degrado l’intera civiltà che l’aveva espressa. ‘Ammesso che si possa chiamare città’, chiosa Pausania di fronte alla decadenza, “un posto senza un municipio, senza un ginnasio, senza un teatro o una piazza del mercato, senza neanche una fonte pubblica in cui scorra l’acqua’. […] Scriveva lo scrittore satirico viennese Karl Kraus nei suoi Detti e contraddetti: ‘Si può vivere più comodamente sull’isola di Robinson che a Berlino: ma soltanto finché Berlino non esiste’. Perché riporto questa frase illuminante? Per dire che senza città noi creature del Novecento, ‘carpet crawlers’ tra drammi, scempi e sogni del moderno, non potremmo essere. La città siamo noi. Alle trasformazioni delle città italiane, ed europee, ho dedicato una certa quantità di inchieste e reportage per il mio giornale. Da Milano a Rotterdam, da Parigi ad Amburgo, da Londra a Venezia. In questo libro non compare nulla, di tutto ciò, eppure questo mio impegno affiora, io credo, a ogni angolo. Perché ho voluto scrivere, oltre a un racconto a puntate intorno a personalità creative e fascinose, un omaggio a noi uomini e donne di città, alle nostre comuni passioni. Io sono un milanese: cultura urbana pura. Rumori, luci, etnie, tamburi nella notte e notti senza stelle. E il tema città mi ha toccato il cuore sin dai miei studi universitari, da quando con le settimane per studenti stranieri organizzate dal Daad, Deutscher akademischer Austauschdienst, scoprii Berlino, nella primavera 1977, con l’angosciante stazione Friedrichstrassse, il Muro, l’arroganza dei Vopos, il muto splendore neoclassico di Schinkel, le nottate di cool jazz nell’ombroso Quasimodo, e i liberi amori di quei tempi dolci. E c’era sempre un indomani, una mattinata di sole. E, tanto per dirne uno, Bruno Taut, con le sue Siedlungen, Onkel Tom’s Hutte e la Carl Legien, mi conquistò da subito. Come la Schaubühne nell’edificio di Erich Mendelsohn. E poi ad Amburgo la Chile-Haus. A Barcellona il padiglione di Mies. E Mackintosh a Glasgow. E Terragni a Como. E Loos contro Wagner a Vienna. E la Borsa di Berlage ad Amsterdam. E i meravigliosi grattacieli déco intorno al Loop di Chicago. E il cinematografico Chrysler Building a Manhattan. E la Triennale di Muzio nella mia Milano. E qui mi fermo, ma si sarà capito: chi scrive è un novecentista mai pentito. Mi fermo perché i vecchi amori, a elencarli, diventano, insieme, noiosi e irrazionali, e partendo dalla Repubblica di Weimar potremmo precipitare, di ricordo in ricordo, fino ai templi khmer di Angkor Wat, dove edifici millenari sopravvivono alla forza divorante della giungla. O magari alla Villa imperiale di Katsura nel lontanissimo Giappone, dove finiremmo storditi dal tambureggiare della pioggia sulle foglie.”
ed ecco, tratta
dall’intervista a rem koolhaas, la descrizione della casa ideale da parte di un
signore che aveva capito tutto dei rapporti di convivenza:
“Un giorno venne da noi un signore che voleva una nuova casa in Olanda. A due condizioni: odiava il disordine, per cui chiedeva molto spazio per immagazzinare, nascondere; e odiava il casino familiare, quindi ciascuno doveva poter stare separato dagli altri e solo se necessario incontrarli in una zona comune.”
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