dunquedunquedunque: sabato scorso sono tornata a scuola per
frequentare il workshop di revisione di testi tradotti condotto dall’ottima
mariarosa bricchi di bruno mondadori, meritoriamente organizzato dalla rivista
online “la nota del traduttore”.
nel corso delle dense ore del laboratorio si è parlato molto
della sconsigliabile tendenza di alcuni traduttori a rendere più bello il testo
sinonimizzando, con esempi da kafka e letture da kundera, coetzee, nabokov. è
emersa come esiziale la tentazione di innalzare il registro,
dell’overtranslating, mediante il quale il traduttore paga un tributo di
rispetto al testo allo stesso tempo tradendolo.
e poi si è girovagato per
l’antilingua di calvino, la vita agra, l’accademia della crusca e la grammatica del serianni: una bella ripassata lavorando su piccoli esempi concreti e la
possibilità di confrontarsi con colleghi provenienti da ambiti diversi.
e insomma, dopo aver tanto discettato di testi in altre
lingue, verso la fine qualcuno ha chiesto a bricchi quali autori italiani
contemporanei apprezzasse e lei ha risposto che non legge volentieri gli
italiani, che negli ultimi quindici anni ha apprezzato moltissimo solo walter
siti con i suoi Troppi paradisi, e
forse, sì, scrive benino anche lagioia.
la pletora di scrittorelli che operano in direzione del
proprio ombelico – questo, concordavamo bricchi e io, è uno dei loro difetti
principali –, con relativo pollaio su litblog e facebook, è poco interessante
per chi scrive, che però nella sua antitalianità si era persa pure siti. finito
il workshop, ho deciso che avrei avuto Troppi paradisi senza por tempo in mezzo, e il vicino libraccio è
servito all’uopo. e, signori, se mariarosa aveva ragione! ne ho lette
centocinquanta pagine e dalla prima riga ho gustato un testo che usa le esatte
sacre parole che si devono usare per dire ciò che vuole dire. che in pagine
dichiaratamente finte colloca verità molto mediocri e dolorose in cui ci si può specchiare.
“Mi chiamo Walter Siti, come tutti. Campione di mediocrità. […] Se non fossi medio troverei l’angolatura per criticare questo mondo, e inventerei qualcosa che lo cambia.” (p. 3).
E sulla famiglia, sulle vecchie serie televisive:
“[…] la televisione è il mio centro di calore, la distributrice di emozioni. Le situation comedy, soprattutto, sono la famiglia che avrei voluto avere; genitori spiritosi, molti figli, battute che riescono sempre e villette isolate col giardino. Qualche volta, un cane rompicoglioni che però non abbaia di notte – le tensioni si scioglieranno per forza cinque minuti prima della fine, che è prossima perché il tutto dura mezz’ora. I genitori a letto commentano, i figli crescono bene, l’esterno non è più minaccioso, spenta la luce faranno l’amore perché nonostante l’età lo fanno ancora volentieri. I Jefferson, i Robinson, i Keaton, la famiglia Bradford. Oppure qualche madre divorziata, che però funge da madre e da padre.”
la stazione televisiva k2 propone sei giorni se sette, da
una certa ora in poi, la Seratissima Jefferson. chi scrive non se ne perde una.
i due ex ragazzi di harlem, la pepata domestica florence, l’evidente intimità
ancora in circolo tra george e louise “weezy”, il gruppo dei vicini-amici:
tutto rimanda energia, amore e affetto. ebbene, se parliamo di jefferson, io
sono con walter: e adesso scusate, ma devo sintonizzarmi sul mio canale
preferito.
2 commenti:
Me le ricordo le sit-com: rassicuranti e protettive, ti facevano pensare che il mondo là fuori non fosse così brutto.
Esistono ancora, probabilmente, ma io non ne ho più cognizione da almeno vent'anni. E suppongo - come sempre accade - che non siano più quelle di una volta.
ma no, ma no, paolo: ci sono infinite repliche, così è sempre tutto uguale e rassicurante.
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