anuar e io siamo
vicini di casa da almeno quattro anni. abitiamo sullo stesso pianerottolo, io
con l’adolescentina ormai iena patentata e lui con una serie di amici. anuar
porta sempre vestiti orrendi impeccabilmente stirati e un profumo
inqualificabile. un giorno, mentre scendevamo insieme in ascensore, senza alcun
tipo di remora mi ha chiesto che lavoro facessi, perché mi vedeva spesso salire
e scendere con pacchi di carta dall’aspetto misterioso. io gliel’ho detto, e
lui si è illuminato tutto, poi mezzo in inglese mezzo in italiano mi ha
snocciolato le sue preferenze letterarie. be’, degli italiani dante, mi fa. è
carino, commenta (proprio così, in italiano, “carino”). poi tutti i comunisti,
mi fa: tolstoj, cecov, puskin. poi rimango secca, perché aggiunge “e poi
shelley, i can’t remember…”. chiedo “percy bysshe shelley?”, mentre mi si
presentano alla mente vaghe reminiscenze di liceo. anuar si illumina: “yes”.
poi mi fa: “lei come si chiama?” “anna, e lei?” “anuar”. mi tende la mano tutto
felice e mi dice “piacere. buona giornata, signora anna” (io quelli che mi
chiamano signora + nome di battesimo li ammazzerei, ché sento odor di servitù
della gleba). non posso rispondere “anche a lei, mr. + cognome”, poiché non
conosco il suo cognome, perciò viro su un “allora a presto” + sorriso.
perciò,
rifletto, ha letto dante in bengalese (o in inglese), non sembra il feroce
saladino, impesta l’ascensore di profumo, sta sempre con maschi. magari sarà
gay ed è venuto in italia per starsene in pace senza correre il rischio di
essere giustiziato nella sua nazione a forte maggioranza musulmana. non mostra l’arroganza
con penchant delinquenziale
di molti giovani nordafricani con giubbotto di pelle finta, felpa con cappuccio
e grosse scarpe da ginnastica bianche démodé, sempre alla ricerca di qualcosa; è
vivace e non presenta i tratti depressivi del musulmano disadattato in
Occidente; ti guarda negli occhi, ti sorride e ti dà pure la mano. possiamo
essere blandamente amici.
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