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silvio e mike a milano, anni ottanta. courtesy adkronos.com |
Il tempo dell’innocenza è una sorta di Bildungsroman: un ragazzo privo di
particolari qualità viene coinvolto suo malgrado in un orrendo scherzo ai danni
di un amico e poi, fattosi uomo, posto di fronte a una scelta altrettanto
orrenda: salvare una vita sopprimendone un’altra. La Milano della metà degli
anni ottanta che compare nel libro è una città misteriosa, osservata da
periferie che compongono paesaggi quasi lunari (“Ci lasciamo alle spalle via Val di Ledro, dove abito
io, e puntiamo dritto verso i prati dietro l’Ospedale Maggiore, la grande zona incolta, semiselvaggia,
che sta fra Niguarda, Affori, Bruzzano. Un paesaggio che a seconda dell’angolo
in cui ti fermi a guardarlo, e dell’ora del giorno, può sembrarti affascinante,
squallido o spaventoso. Qui Milano si ferma, come se lottasse contro il
fantasma di quella campagna che mia madre ricorda ancora. Campi, orti abusivi,
baracche di lamiera. I resti di un cimitero delle automobili, verso viale
Fulvio Testi: carcasse arrugginite che spuntano da una terra nera, chiazzata di
cardi e rovi. Il fiume Seveso, una cloaca a cielo aperto, puzzolente di fogna,
di chimica, di qualcosa che tiene alla larga perfino le pantegane. E tutt’intorno, in lontananza, le gru
dei cantieri.
Questo è
il nostro regno spelacchiato, il teatro di scorribande in bici, sfide a pallone
con ragazzi di altri quartieri, risse.”)
Per la trama, riassunta
dall’autore stesso, rimando a smemoranda.it.
Veniamo alle notazioni:
nel Prologo, parte intitolata “La notte del 9 maggio 2011” (peraltro
introdotta, come gli altri, da un sommarietto in corsivo che mi è piaciuto
molto, che ricorda quelli aviti di Fruttero&Lucentini pur senza riportare
precisamente gli incipit dei sottocapitoli: “Il vino rovesciato. Qualcuno in casa. La pistola sul
tavolo. Involtini. Non vengo a portare buone notizie. Un gesto semplice.”),
l’io narrante avverte la presenza di qualcuno in casa.
Un uomo è
seduto al tavolo e sta mangiando qualcosa da un cartoccio. Avrà cinquant’anni,
e porta un impermeabile chiaro. Appoggiati davanti a sé ha un bicchiere di
birra e la mia pistola, la Walther 9 millimetri che tengo nello zaino. Eccolo
lì lo zaino, aperto e abbandonato a terra.
L’uomo
alza lo sguardo.
“Hm!”
annuisce, come se fosse contento di vedermi. Uno strano verso che parte con uno
sbuffo d’aria dal naso, uno starnuto afono, e finisce con un mugugno di gola a
labbra strette. “Damiano Vereni, immagino. O sei un ladro che dormiva nel letto
di Damiano Vereni? Hm?”
[…]
“Ma chi
sei tu?” riesco finalmente a dire. Faccio un paio di passi nella stanza, mentre
la paura cede sempre più allo sbalordimento. “Come sei entrato?”
“Hm.
Riccardo Velardi”, si presenta l’uomo senza smettere di masticare. Fa per
porgermi la mano, poi si guarda le dita unte e le sfrega fra loro con una
smorfia. Solleva il bicchiere come per brindare. “Ric, per gli amici. Anche per
i nemici, a dire la verità. Ma noi due saremo amici, ci puoi scommettere.”
“Ma cosa
vuoi tu da me? Chiamo la polizia!”
Non mi suona
completamente verosimile la reazione di Damiano quando dice “Ma chi sei tu?”,
“Come sei entrato?”, “Ma cosa vuoi tu da me? Chiamo la polizia!”. Non riesco a
figurarmi un uomo quarantenne che fa tutte queste domande molto ragionevoli a
un intruso che ha sorpreso al suo tavolo e men che meno la dichiarazione, forse
troppo esplicita, “Chiamo la polizia!”.
Il “ci
puoi scommettere” di Velardi mi suona ancora più innaturale, decisamente un
calco da “you bet”, forse inadeguato per un cinquantenne, sia pure nel 2011.
Siete
d’accordo? Qualcuno tra i lettori riesce a proporre un dialogo un po’ più
naturale, più verosimile?
Segnalo
in ogni caso l’eccellente chiusa del capitolo: “Poi, con un gesto semplice,
prende la Walther con la mano destra. Me la punta contro, mira allo stomaco e
spara.”
Come si
diceva, la vicenda ha inizio nel 1986; nel tentativo di restituire i tempi,
qualche volta una leggera forzatura lascia intravedere la mano dell’autore: “’Allora io vado.’ ‘Non stare fuori troppo!’ mi grida
dietro mia madre, dalla sala dove è seduta a lavorare a maglia. ‘Guarda che
l’hanno detto anche al telegiornale che può essere pericoloso respirare
quest’aria.’ Qualche giorno fa c’è stato un incidente nella centrale nucleare
di Chernobyl, in Ucraina.” (p. 19); “Mi allunga una cassetta, una C-90 TDK di quelle al cromo,
che hanno un suono più brillante anche se lasciano tutto quel nero sulle
testine del radioregistratore. Apro la custodia e guardo i titoli: Tangerine
Dream, Encore.”
(p. 23); “Gian Maria era un uomo irresistibile, un latin lover come li
chiamavano allora.” (p. 40)
Si
potrebbe migliorare qualcosa anche qui, o forse è il massimo che l’autore
poteva fare?
Segnalo
infine una lunga considerazione sull’uso di Facebook, che condivido quasi
totalmente:
Non c’è
niente da fare. L’impressione di tristezza che mi prende sempre più spesso con
Facebook nasce da un senso di uniformità, di ripetizione. Lì tutto è
organizzato per darti l’illusione di essere unico; ti fanno mettere le tue
foto, i tuoi dati, il tuo profilo personale, i film, i libri e i cd che ti
piacciono, come se a qualcuno interessasse qualcosa di tutto questo, come se le
vacue amenità di cui rendi partecipi gli altri (“Carbonara o amatriciana,
stasera? That is the question.” “Maria Grazia spegne la tv e va a letto
perplessa”. “Ma piove anche lì a Bari?”) e i link ai video di Vasco Rossi e le
foto del gatto ti confermassero che sei vivo. Che lasci una traccia nel mondo.
Invece io più ci vado più noto che le cose che ci rendono uguali prevalgono su
quelle che ci differenziano. Le meschine paure, le frustrazioni. L’ululato
dell’Io che vuole farsi sentire a tutti i costi e quanto più si sente piccolo
tanto più forte abbaia, come fanno i cani. I permalosi poeti di Facebook, dio
mio, quelli che come diceva Moravia credono che per scrivere una poesia basti
andare a capo prima di arrivare in fondo alla riga. Le ultraquarantenni che non
mettono la data di nascita e imbrogliano con la foto – e dire che a incontrarle
per la strada molte di loro sono così belle, con le rughette, la cellulite e
tutto. Perché lo fanno? Contro il tempo non c’è difesa, solo dignità. E
anch’io, che una volta dicevo “Per sempre”, adesso mi limito a dire: “Fino alla
fine”.
Non
manca, nel libro, qualche momento-Grazia (Montanari tiene una rubrica sulla
versione online – credo solo online – del settimanale femminile. È peraltro un
momento-Grazia anche quello qui sopra, dove si parla con indulgenza di rughette
e cellulite. Indulgenza, e un impalpabile pizzico di misoginia). Nella scena due uomini prendono commiato l’uno dall’altro:
“Che pena,
i maschi! Due donne si stringerebbero l’una all’altra e piangerebbero insieme,
immagino, e farebbero bene. Noi siamo qui, a tocchettarci come se ciascuno dei
due sospettasse che l’altro abbia la lebbra.”
[Alcuni
commenti che nulla hanno a che vedere con la tecnica o con lo stile: 1. non
necessariamente i commiati emotivi sono commiati positivi; 2. questo parlare di
tocchettarsi fra maschi mi induce a pensare che Montanari non abbia visto
neanche una puntata dei Sopranos, dove i maschi si abbracciano continuamente; 3. gli uomini
amici delle donne in quanto genere mi lasciano sempre un po’ perplessa, un po’
dubbiosa]