domenica 14 ottobre 2012

raul montanari, il tempo dell'innocenza_alcune notazioni

silvio e mike a milano, anni ottanta. courtesy adkronos.com

Il tempo dell’innocenza è una sorta di Bildungsroman: un ragazzo privo di particolari qualità viene coinvolto suo malgrado in un orrendo scherzo ai danni di un amico e poi, fattosi uomo, posto di fronte a una scelta altrettanto orrenda: salvare una vita sopprimendone un’altra. La Milano della metà degli anni ottanta che compare nel libro è una città misteriosa, osservata da periferie che compongono paesaggi quasi lunari (“Ci lasciamo alle spalle via Val di Ledro, dove abito io, e puntiamo dritto verso i prati dietro l’Ospedale Maggiore,  la grande zona incolta, semiselvaggia, che sta fra Niguarda, Affori, Bruzzano. Un paesaggio che a seconda dell’angolo in cui ti fermi a guardarlo, e dell’ora del giorno, può sembrarti affascinante, squallido o spaventoso. Qui Milano si ferma, come se lottasse contro il fantasma di quella campagna che mia madre ricorda ancora. Campi, orti abusivi, baracche di lamiera. I resti di un cimitero delle automobili, verso viale Fulvio Testi: carcasse arrugginite che spuntano da una terra nera, chiazzata di cardi e rovi. Il fiume Seveso, una cloaca a cielo aperto, puzzolente di fogna, di chimica, di qualcosa che tiene alla larga perfino le pantegane.  E tutt’intorno, in lontananza, le gru dei cantieri.
Questo è il nostro regno spelacchiato, il teatro di scorribande in bici, sfide a pallone con ragazzi di altri quartieri, risse.”)
Per la trama, riassunta dall’autore stesso, rimando a smemoranda.it.

Veniamo alle notazioni: nel Prologo, parte intitolata “La notte del 9 maggio 2011” (peraltro introdotta, come gli altri, da un sommarietto in corsivo che mi è piaciuto molto, che ricorda quelli aviti di Fruttero&Lucentini pur senza riportare precisamente gli incipit dei sottocapitoli: “Il vino rovesciato. Qualcuno in casa. La pistola sul tavolo. Involtini. Non vengo a portare buone notizie. Un gesto semplice.”), l’io narrante avverte la presenza di qualcuno in casa.

Un uomo è seduto al tavolo e sta mangiando qualcosa da un cartoccio. Avrà cinquant’anni, e porta un impermeabile chiaro. Appoggiati davanti a sé ha un bicchiere di birra e la mia pistola, la Walther 9 millimetri che tengo nello zaino. Eccolo lì lo zaino, aperto e abbandonato a terra.
L’uomo alza lo sguardo.
“Hm!” annuisce, come se fosse contento di vedermi. Uno strano verso che parte con uno sbuffo d’aria dal naso, uno starnuto afono, e finisce con un mugugno di gola a labbra strette. “Damiano Vereni, immagino. O sei un ladro che dormiva nel letto di Damiano Vereni? Hm?”
[…]
“Ma chi sei tu?” riesco finalmente a dire. Faccio un paio di passi nella stanza, mentre la paura cede sempre più allo sbalordimento. “Come sei entrato?”
“Hm. Riccardo Velardi”, si presenta l’uomo senza smettere di masticare. Fa per porgermi la mano, poi si guarda le dita unte e le sfrega fra loro con una smorfia. Solleva il bicchiere come per brindare. “Ric, per gli amici. Anche per i nemici, a dire la verità. Ma noi due saremo amici, ci puoi scommettere.”
“Ma cosa vuoi tu da me? Chiamo la polizia!”

Non mi suona completamente verosimile la reazione di Damiano quando dice “Ma chi sei tu?”, “Come sei entrato?”, “Ma cosa vuoi tu da me? Chiamo la polizia!”. Non riesco a figurarmi un uomo quarantenne che fa tutte queste domande molto ragionevoli a un intruso che ha sorpreso al suo tavolo e men che meno la dichiarazione, forse troppo esplicita, “Chiamo la polizia!”.
Il “ci puoi scommettere” di Velardi mi suona ancora più innaturale, decisamente un calco da “you bet”, forse inadeguato per un cinquantenne, sia pure nel 2011.
Siete d’accordo? Qualcuno tra i lettori riesce a proporre un dialogo un po’ più naturale, più verosimile?  

Segnalo in ogni caso l’eccellente chiusa del capitolo: “Poi, con un gesto semplice, prende la Walther con la mano destra. Me la punta contro, mira allo stomaco e spara.”

Come si diceva, la vicenda ha inizio nel 1986; nel tentativo di restituire i tempi, qualche volta una leggera forzatura lascia intravedere la mano dell’autore: “’Allora io vado.’ ‘Non stare fuori troppo!’ mi grida dietro mia madre, dalla sala dove è seduta a lavorare a maglia. ‘Guarda che l’hanno detto anche al telegiornale che può essere pericoloso respirare quest’aria.’ Qualche giorno fa c’è stato un incidente nella centrale nucleare di Chernobyl, in Ucraina.” (p. 19); “Mi allunga una cassetta, una C-90 TDK di quelle al cromo, che hanno un suono più brillante anche se lasciano tutto quel nero sulle testine del radioregistratore. Apro la custodia e guardo i titoli: Tangerine Dream, Encore.” (p. 23); “Gian Maria era un uomo irresistibile, un latin lover come li chiamavano allora.” (p. 40)
Si potrebbe migliorare qualcosa anche qui, o forse è il massimo che l’autore poteva fare?

Segnalo infine una lunga considerazione sull’uso di Facebook, che condivido quasi totalmente:

Non c’è niente da fare. L’impressione di tristezza che mi prende sempre più spesso con Facebook nasce da un senso di uniformità, di ripetizione. Lì tutto è organizzato per darti l’illusione di essere unico; ti fanno mettere le tue foto, i tuoi dati, il tuo profilo personale, i film, i libri e i cd che ti piacciono, come se a qualcuno interessasse qualcosa di tutto questo, come se le vacue amenità di cui rendi partecipi gli altri (“Carbonara o amatriciana, stasera? That is the question.” “Maria Grazia spegne la tv e va a letto perplessa”. “Ma piove anche lì a Bari?”) e i link ai video di Vasco Rossi e le foto del gatto ti confermassero che sei vivo. Che lasci una traccia nel mondo. Invece io più ci vado più noto che le cose che ci rendono uguali prevalgono su quelle che ci differenziano. Le meschine paure, le frustrazioni. L’ululato dell’Io che vuole farsi sentire a tutti i costi e quanto più si sente piccolo tanto più forte abbaia, come fanno i cani. I permalosi poeti di Facebook, dio mio, quelli che come diceva Moravia credono che per scrivere una poesia basti andare a capo prima di arrivare in fondo alla riga. Le ultraquarantenni che non mettono la data di nascita e imbrogliano con la foto – e dire che a incontrarle per la strada molte di loro sono così belle, con le rughette, la cellulite e tutto. Perché lo fanno? Contro il tempo non c’è difesa, solo dignità. E anch’io, che una volta dicevo “Per sempre”, adesso mi limito a dire: “Fino alla fine”.

Non manca, nel libro, qualche momento-Grazia (Montanari tiene una rubrica sulla versione online – credo solo online – del settimanale femminile. È peraltro un momento-Grazia anche quello qui sopra, dove si parla con indulgenza di rughette e cellulite. Indulgenza, e un impalpabile pizzico di misoginia). Nella scena due uomini prendono commiato l’uno dall’altro:

“Che pena, i maschi! Due donne si stringerebbero l’una all’altra e piangerebbero insieme, immagino, e farebbero bene. Noi siamo qui, a tocchettarci come se ciascuno dei due sospettasse che l’altro abbia la lebbra.”

[Alcuni commenti che nulla hanno a che vedere con la tecnica o con lo stile: 1. non necessariamente i commiati emotivi sono commiati positivi; 2. questo parlare di tocchettarsi fra maschi mi induce a pensare che Montanari non abbia visto neanche una puntata dei Sopranos, dove i maschi si abbracciano continuamente; 3. gli uomini amici delle donne in quanto genere mi lasciano sempre un po’ perplessa, un po’ dubbiosa]


4 commenti:

paolo f ha detto...

Il dialogo sull'intruso trovato seduto al tavolo lo trovo insufficiente: sembra somigliare alla parodia di una situazione classica, ma a quanto pare non è così, dunque... non so che pensare.

le leggere forzature per restituire i tempi, fatte in quel modo, fanno venir in mente le esigenze di "sceneggiatura" che si vedono nei dialoghi di molti film e telefilm. Risultato scarso, secondo me: ci si poteva (doveva?) aspettare di più.

gli uomini amici delle donne in quanto genere lasciano perplesso anche me: personalmente, non terrei mai una rubrica destinata alle donne.
io sono amico delle donne sul serio: forse per questo lego così poco coi maschi...;)

aa ha detto...

dunque condividi certe mie perplessità. attendo anche commenti altrui, per confrontarli.
ciao, paolo.

Anonimo ha detto...

Cara Anna, anzitutto grazie della tua attenzione, che mi fa un grande piacere. Questo è il mio dodicesimo romanzo (il diciannovesimo libro edito), ma il giorno in cui smetterò di imparare qualcosa, come diceva Solone, vorrà proprio dire che sono morto.

Trovo interessanti tutte le tue osservazioni.
Sulla reazione di Danio alla presenza di Velardi in casa sua, che ha in effetti qualcosa di strano, quasi di irrisolto nel tono: il problema di Danio è la coda di paglia dovuto appunto alla presenza in casa sua della pistola che adopera per azioni teppistiche ai danni di automobilisti e taxisti. Danio non è solo una vittima di un atto di violenza; è in realtà in parte anche un carnefice e questo inibisce, in un certo senso, la spontaneità e l'intensità di una reazione quale potremmo avere noi. Tutto il capitolo iniziale tende a creare intorno a Danio un'atmosfera sinistra, di violenza condivisa, che culmina come giustamente hai notato nel gesto finale di Velardi che spara.
Questo spiega perché Danio reagisce in modo strano; lo spiega almeno nelle intenzioni dell'autore, perché l'esecuzione del dialogo può benissimo essere difettosa.

Il resto delle cose che dici, positive e negative, sono osservazioni che trovo interessanti e istruttive, non contestabili.

Un caro saluto
Raul

aa ha detto...

Caro Raul,

è decisamente interessante avere l'autore in persona a spiegare i meccanismi interni del suo libro. Ti ringrazio molto per aver condiviso il tuo pensiero a proposito del dialogo tra Damiano e Velardi. E' prezioso per me che leggo di professione e prezioso per chi vuole scrivere.

Auspico altri dialoghi come questi per il futuro.

aa