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[qui il ms. risulterebbe interrotto].
Quattordici ore di lavoro al giorno tra tipografia, cartiera, corrispondenza, libreria e biblioteca (perché l’editore dev’essere fondamentalmente uomo di biblioteca e di tipografia, artista e commerciante) non sono troppe anche per il mio editore ideale. L’importante é ch’egli non debba aver la condanna del nostro pauperismo, non debba vivere di ripieghi tra le persecuzioni del prefetto, il ricatto della politica attraverso il commercio.
Penso un editore come un creatore. Creatore dal nulla se egli è riuscito a dominare il problema fondamentale di qualunque industria: il giro degli affari che garantisce la moltiplicazione infinita di una sia pur piccola quantità di circolante. Il mio editore ideale che con una tipografia e un’associazione in una cartiera controlla i prezzi; con quattro librerie modello conosce le oscillazioni quotidiane del mercato, con due riviste si mantiene a contatto coi più importanti movimenti d’idee, li suscita, li rinvigorisce, non ha bisogno di essere un Rockefeller. La sua forza finanziaria deve esser tutta nella sua capacità di moltiplicare gli affari.
Il mio editore stampa collezioni, trova i competenti dove sembra che non ci siano, può creare una storia universale, un’enciclopedia...
Basta che egli sia stato logico; non abbia fatto transazioni coi suoi principi di uomo colto, che pubblico e scrittori siano sicuri di lui. Un paese in cui ci fossero tradizioni, che non si debba improvvisare come succede a noi, la potenza di un editore antico è praticamente illimitata. Paravia e Sonzogno in Italia possono fare ciò che vogliono. È un peccato che si siano dedicati soltanto alle edizioni scolastiche e alla divulgazione corrente.
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Il centro della crisi del libro dunque è la crisi dell’editore. In Italia non si crede all’editore. Quasi tutti gli editori sono tipografi o librai...
L’amico Ferrari, uno dei più intelligenti librai d’Italia, ha sollevato le ire dicendo che non ci sono editori in Italia...
[…]
Se il discorso si riferisce soltanto all’Italia, l’Italia non ha crisi libraria: voglio dire che la produzione non è diminuita né peggiorata in confronto ad altri periodi della nostra storia intellettuale. La crisi è sempre esistita e continuerà se si paragona la qualità e la quantità della nostra produzione editoriale con quella dei paesi civili, specialmente Germania, Francia, Inghilterra. (In Bulgaria, in Svezia, in Cecoslovacchia, La pace di F. Nitti si è venduta due volte più che in Italia, dunque proporzionalmente col numero degli abitanti 8, 15, 20 volte più che in Italia: e bisogna aggiungere che nel 1925 La pace di Nitti è la più alta tiratura del libro politico raggiunta in Italia).
Il nostro commercio librario, dicono, non è bene organizzato, i dazi doganali sulla carta e sulle macchine tipografiche pesano due volte sul prezzo del libro, non sappiamo esportare nell’America del Sud ecc. ecc. ecco tante ragioni della crisi che è più vecchia delle tesi del Bonghi e del Martini sull’impopolarità della letteratura e l’inesistenza del teatro italiano. Il libro di cultura in Italia si stampa normalmente in 2.000 copie, in Germania in 5.000; la prima edizione di un nostro romanzo importante è di 5.000 copie, in Francia di 20.000; l’edizione italiana della Storia di Cristo ha toccato 100.000 copie, le edizioni americane quasi 1.000.000 di copie.
La verità è che paragonata colla cultura europea moderna l’Italia manca di autori, di editori, di librai, di pubblico.
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